Secondo Nielsen, a maggio 2025 lo streaming ha superato per la prima volta la TV tradizionale negli USA, raggiungendo quasi il 45% del tempo di visione. Un sorpasso storico che ci dice molto più di quanto sembri: cambia il modo in cui ci informiamo, ci intratteniamo.
Negli ultimi anni, il modo in cui fruiamo dei contenuti video è cambiato radicalmente.
Secondo gli ultimi dati Nielsen, a maggio 2025 lo streaming ha rappresentato il 44,8% del tempo totale trascorso davanti allo schermo negli Stati Uniti. Per la prima volta, ha superato la somma delle due principali forme di televisione tradizionale: via cavo e in chiaro.
Un dato che non lascia spazio a dubbi: lo streaming non è più un’alternativa. È diventato il modo principale con cui le persone si informano, si intrattengono e scelgono cosa vedere.
Ma cosa significa davvero questo sorpasso?
Significa che non guardiamo più la TV come una volta. E non si tratta solo di tecnologia. È in atto un cambio culturale profondo. L’utente oggi è protagonista, sceglie quando, come e cosa guardare. Non esiste più il vincolo del palinsesti; non c’è più l’attesa per il programma delle 21. O delle 20:30 per chi lo ricorda. Tutto è on demand. Sempre.
Non è un caso che le piattaforme più popolari, da YouTube a Netflix, da Twitch a TikTok, siano diventate nel tempo ecosistemi di attenzione, capaci di trattenere gli utenti per ore grazie a un flusso continuo e personalizzato di contenuti.
Sorpasso dello streaming sulla Tv, un passaggio epocale
E questa trasformazione non riguarda solo l’intrattenimento.
Sempre più persone si informano tramite live streaming, notizie commentate in diretta, creator che costruiscono formati originali dove informazione e opinione si fondono. La differenza tra chi fa TV e chi fa streaming è ormai sempre più sottile. In molti casi, è del tutto svanita.
Non è più la TV a dettare il tempo dell’informazione o del racconto. È lo streaming a dettare il tempo dell’attenzione.
Un tempo si diceva “ci vediamo in TV”. Oggi si dice “seguimi in diretta” o “trovi tutto sul mio canale”.
È il trionfo della logica personalizzata, ma anche della disintermediazione portata forse all’estremo.
I creator parlano direttamente alle community, saltando tutta la filiera editoriale classica. E in questo scenario, la TV tradizionale – se non evolve – rischia di diventare marginale.
Naturalmente non tutti gli utenti sono migrati completamente. I contenuti sportivi in diretta e gli eventi di massa continuano ad avere un peso in TV. Ma anche lì, lo streaming avanza. Basti pensare a quanto sia centrale oggi Amazon Prime Video per il calcio o le mosse aggressive di Disney+ per accaparrarsi diritti sportivi.
In questo scenario, resta da capire se questo sorpasso è solo numerico o se diventerà strutturale, anche nel modo in cui raccontiamo il mondo.
Perché lo streaming è veloce, adattivo, iper-personalizzato. Ma rischia anche di essere più frammentato, più polarizzato, più schiavo dell’algoritmo.
La sfida oggi non è solo quella dell’audience. È la sfida della qualità. Se il tempo dell’attenzione si è spostato sulle piattaforme, la responsabilità di chi le popola è ancora più grande.
Vi invito ad ascoltare l’episodio sul mio canale YouTube, che vi invito a seguire, e anche su Spotify che trovate qui sotto.
Il Pentagono ha annunciato un accordo con xAI per integrare Grok nei sistemi di difesa USA. L’IA di Musk avrà accesso diretto ai flussi di contenuti condivisi su X. Le modalità dell’accordo e la stessa possibile integrazione sollevano interrogativi su dati, controllo e trasparenza.
Il rilascio è previsto per l’inizio del 2026 e coinvolgerà circa tre milioni di dipendenti militari e civili del Dipartimento della Difesa.
A prima vista, potrebbe sembrare una notizia come tante nell’era dell’IA generativa. Ma guardando più da vicino emergono elementi che meritano qualche approfondimento in più. Perché questa non è semplicemente l’adozione di un nuovo strumento tecnologico da parte dell’esercito americano. In questi casi siamo oltre, e si entra nella sfera dell’inedito.
Cosa prevede l’accordo tra il Pentagono e xAI
Grok opererà a Impact Level 5 (IL5), il livello di sicurezza che consente la gestione di Controlled Unclassified Information (CUI). Si tratta di informazioni sensibili ma non classificate.
Ossia, dati personali dei dipendenti, informazioni su infrastrutture critiche, dettagli operativi non segreti, comunicazioni interne governative. Singolarmente, questi dati non compromettono la sicurezza nazionale Usa, ma aggregati da un’IA possono rivelare elementi di una certa rilevanza.
All’interno del comunicato diramato si legge che gli utenti, militari e civili del DOW (Department of War)) avranno accesso a “insight globali in tempo reale dalla piattaforma X”, fornendo al personale del Dipartimento della Guerra quello che viene definito un “vantaggio informativo decisivo” e una “consapevolezza situazionale globale”. È prevista anche una possibile estensione futura a “carichi di lavoro classificati”.
Il valore del contratto è di 200 milioni di dollari, parte di accordi più ampi che includono anche OpenAI, Google e Anthropic. Ma qui emerge già un primo elemento di criticità.
Accordo tra xAI e il Pentagono, Grok entra nei sistemi militari
Non esiste alcuna separazione tra Grok e X
Questo è il nodo che distingue l’accordo Pentagon-xAI da qualsiasi altra partnership tra governo e aziende di IA. Grok non è un modello isolato. È un sistema profondamente integrato con la piattaforma X, e questa integrazione opera su più livelli.
Training sui dati di X
Grok viene addestrato sui post di X con un opt-in automatico attivato di default, senza informare gli utenti. L’impostazione è nascosta nelle opzioni di privacy e disattivabile solo da desktop.
Secondo le policy della piattaforma, X può “utilizzare post, interazioni utente, input e risultati con Grok per training e fine-tuning, condividendoli con xAI”.
Accesso in tempo reale
Grok integra le API di X, processa nuovi tweet via WebSocket per aggiornamenti istantanei, non batch processing. Usa endpoint come GET /2/tweets/search/stream, GET /2/tweets/sample/stream, GET /2/trends/place.
L’algoritmo di X determina quali contenuti hanno visibilità sulla piattaforma, e quindi quali dati alimentano Grok. In virtù di questo accordo, l’intelligenza artificiale Grok entra nel Pentagono con accesso diretto a quei flussi.
Fermiamoci su questo passaggio. Dunque, il Pentagono userà un’IA per identificare minacce basandosi su dati provenienti da una piattaforma il cui algoritmo è progettato non per rappresentare la realtà, ma per massimizzare l’engagement.
E quello stesso algoritmo è controllato dalla stessa persona che controlla l’IA.
Non è solo un conflitto di interessi. È una struttura in cui la percezione della realtà dell’apparato militare più potente del mondo passa attraverso un filtro privato, opaco, potenzialmente manipolato.
I “vasti dataset” menzionati sono in realtà contenuti di X già filtrati dall’algoritmo. I “pattern” identificati saranno pattern di una realtà distorta, se l’algoritmo amplifica certi contenuti e ne sopprime altri. Le “minacce” vengono definite secondo criteri incorporati nel modello. Chi li ha stabiliti? Con quali bias? Con quale trasparenza?
Accordo xAI Pentagono, Grook entra nei sistemi militari USA
Altri precedenti problematici
La senatrice Warren ha sollevato preoccupazioni specifiche nella sua lettera al Pentagono. Musk ha promosso Grok come chatbot “non filtrato” e orientato alla “ricerca della verità” (truth-seeking) che non si conforma agli standard politicamente corretti.
Ma Grok è noto per fornire informazioni inaccurate quando interrogato su eventi storici e disastri naturali, inclusi nomi, date e dettagli sbagliati.
Giorni dopo che Musk aveva dichiarato sui social “miglioramenti significativi” al chatbot, Grok si autodefiniva “MechaHitler” e raccomandava un secondo Olocausto ad account neonazisti. La mancanza di filtri di sicurezza ha prodotto contenuti antisemiti e offensivi. Come ha osservato un esperto di sicurezza: “X è piena di fake news e visioni estremiste, non è ciò su cui vuoi che un LLM sia addestrato.”
E questa è l’IA che ora avrà accesso ai flussi informativi del Pentagono per fornire “consapevolezza situazionale globale”.
Le domande che resteranno senza risposta
Chi garantisce che i dati di X usati da Grok rappresentino una visione equilibrata della realtà e non una versione amplificata algoritmicamente? Chi verifica che i modelli e le minacce identificate non riflettano i bias del sistema di training?
Come viene gestito il conflitto di interessi di Musk, che con Starlink in zone di conflitto, SpaceX con contratti governativi, e ora un’IA che potrebbe influenzare le valutazioni di sicurezza nazionale su questi stessi dossier?
E per i partner NATO? L’intelligence condivisa con gli Stati Uniti passerà attraverso sistemi integrati con l’IA di Musk? Con quale trasparenza? E con quali garanzie?
Dall’algoritmo del proprietario all’IA del proprietario
Ho scritto spesso di come l'”algoritmo del proprietario” serva gli obiettivi strategici di chi controlla la piattaforma, non gli interessi degli utenti. Ma qui siamo a un livello successivo.
Non si tratta più solo di un algoritmo in mani private. È un’intera catena gestita da un singolo a servizio, ora, di apparati governativi.
X come piattaforma che genera flussi informativi globali in tempo reale, xAI e Grok come IA che processa e interpreta quei flussi, Starlink come infrastruttura di connettività anche in zone di conflitto. E ora l’integrazione diretta con l’apparato militare degli Stati Uniti.
È una forma di potere inedita: non statale, non puramente privata. Qualcosa di nuovo per cui forse non esiste ancora un nome adeguato.
Cosa significa tutto questo per l’Europa
L’Europa non ha equivalenti di X, xAI o Starlink. Questa asimmetria nell’infrastruttura cognitiva è un tema che diventerà sempre più urgente.
Non stiamo parlando solo di disinformazione o manipolazione elettorale. Stiamo parlando della possibilità che la percezione della realtà dell’apparato militare più potente del mondo sia mediata da un’infrastruttura privata, poco chiara, controllata da un singolo individuo con interessi economici e politici globali.
È un tema che richiederà analisi approfondite nei prossimi mesi. Perché quando l’IA non è più solo uno strumento ma diventa il filtro attraverso cui un’istituzione percepisce la realtà, le implicazioni vanno ben oltre l'”efficienza operativa”.
TikTok US prenderà il via il prossimo 22 gennaio 2026. ByteDance e TikTok hanno firmato gli accordi vincolanti per la joint venture americana. Oracle avrà un ruolo cruciale, con accesso all’algoritmo.
La firma dell’accordo è finalmente arrivata. ByteDance e TikTok hanno firmato, giovedì 18 dicembre 2025, gli accordi vincolanti per la creazione di TikTok US.
Il valore complessivo dell’operazione è stimato in circa 14 miliardi di dollari. Una cifra che riflette il peso di TikTok nel mercato americano, dove la piattaforma conta oltre 170 milioni di utenti.
TikTok US, ora c’è la firma: il 22 gennaio 2026 sarà operativa
Il ruolo di Oracle e la sicurezza dei dati
Come già ricordato, Oracle assume un ruolo centrale nell’operazione. La società di Larry Ellison, storico sostenitore di Trump, diventa il trusted security partner responsabile dell’audit e della certificazione della conformità ai termini di sicurezza nazionale.
La joint venture americana sarà responsabile della protezione dei dati degli utenti statunitensi, della sicurezza dell’algoritmo, della moderazione dei contenuti e della garanzia software. Oracle supervisionerà lo storage delle informazioni degli americani, in linea con quanto annunciato dalla Casa Bianca nei mesi scorsi.
Un passaggio cruciale riguarda l’algoritmo di raccomandazione. La nuova entità dovrà riallenare l’algoritmo sui dati degli utenti americani per garantire che il feed dei contenuti sia libero da manipolazioni esterne. Questo è il cuore della questione sicurezza che ha animato l’intero dibattito su TikTok negli Stati Uniti.
Le criticità che restano aperte
Non mancano le perplessità. Molti esperti ed osservatori hanno osservato che l’accordo non interrompe completamente i legami con ByteDance. Secondo queste voci, la struttura somiglia più a un accordo di franchising che lascia la tecnologia core in Cina, piuttosto che a una vera dismissione.
La legge approvata dal Congresso nel 2024 richiedeva una separazione netta tra TikTok US e ByteDance.
La struttura negoziata dall’amministrazione Trump sembra aggirare questo requisito, mantenendo ByteDance come licenziante dell’algoritmo e gestore delle attività commerciali globali, inclusi e-commerce, advertising e marketing sulla piattaforma americana.
Dalla Cina ancora non è stato espresso un comunicato ufficiale sull’approvazione della transazione. Un passaggio non scontato, considerando che Pechino aveva posto il veto alla cessione dell’algoritmo già nel 2020.
TikTok US e l’algoritmo del proprietario
Come ho già osservato in passato, siamo di fronte a un altro caso di quello che definisco algoritmo del proprietario. L’accesso di Oracle al codice sorgente di TikTok apre scenari inediti sulla possibilità di modellare l’algoritmo di raccomandazione secondo gli interessi dei nuovi proprietari.
X, sotto la gestione di Elon Musk, ha già dimostrato come la proprietà di una piattaforma possa influenzarne profondamente i meccanismi di distribuzione dei contenuti. Con TikTok US la dinamica sarà diversa, ma l’accesso privilegiato all’algoritmo da parte di soggetti vicini al governo americano solleva interrogativi legittimi.
La fine di una storia iniziata nel 2020
La firma degli accordi segna la conclusione di una saga iniziata nel 2020, quando la prima amministrazione Trump aveva tentato di vietare TikTok con un ordine esecutivo poi annullato da Biden.
La legge bipartisan del 2024 ha riportato la questione al centro dell’agenda politica, costringendo ByteDance a trovare una soluzione per mantenere la piattaforma operativa negli Stati Uniti.
Un compromesso che non accontenta tutti
Il risultato è un compromesso che soddisfa parzialmente entrambe le parti. Gli Stati Uniti ottengono il controllo formale sulla piattaforma e sui dati degli utenti americani. ByteDance mantiene una presenza, seppur minoritaria, e continua a licenziare la tecnologia che ha reso TikTok un fenomeno globale.
La domanda resta la stessa di settembre.
Quanto durerà l’equilibrio trovato? In poco più di un mese, anche se c’è la firma, tutto ancora potrebbe succedere.
La firma dell’accordo resta comunque un punto di non ritorno nella storia di TikTok. E resta un capitolo importante nella storia delle piattaforme digitali alla voce “Sovranità digitale”.
Accenture e Anthropic annunciano una partnership pluriennale per accelerare l’adozione dell’IA su scala enterprise, con un Business Group dedicato, nuove offerte per i CIO e soluzioni per settori regolamentati.
Accenture e Anthropic annunciano un rafforzamento significativo della loro collaborazione con l’obiettivo di accompagnare le imprese nel passaggio dai progetti pilota di intelligenza artificiale a un’adozione su larga scala, strutturata e sostenibile. L’accordo, di natura pluriennale, si traduce in un investimento rilevante in competenze, soluzioni e capacità di go-to-market, e segna un ulteriore passo nel percorso di integrazione dell’IA nei processi core delle organizzazioni.
Al centro dell’intesa c’è la creazione dell’Accenture Anthropic Business Group, un nuovo gruppo dedicato che coinvolgerà circa 30.000 professionisti Accenture, formati in modo specifico sull’utilizzo dei modelli Claude di Anthropic. L’iniziativa mira a costruire uno dei più grandi ecosistemi al mondo di esperti Claude, in grado di supportare le aziende nel passaggio rapido dalla sperimentazione alla produzione.
Secondo Julie Sweet, Chair e CEO di Accenture, l’espansione della partnership consentirà ai clienti di accelerare l’utilizzo dell’IA come leva di reinvenzione organizzativa, integrandola in modo responsabile e rapido nei processi aziendali. La combinazione tra le capacità dei modelli Claude e l’esperienza di Accenture in ambito IA, industriale e funzionale viene indicata come elemento chiave per stimolare innovazione, nuove opportunità di crescita e maggiore fiducia nell’adozione dell’IA.
Dario Amodei, CEO e co-fondatore di Anthropic, sottolinea come le imprese abbiano oggi bisogno sia di modelli di intelligenza artificiale avanzati sia delle competenze necessarie per implementarli su scala enterprise. In questo contesto, l’utilizzo esteso di Claude Code da parte di decine di migliaia di sviluppatori Accenture rappresenta, per Anthropic, la più ampia implementazione mai realizzata dei propri strumenti di coding.
Accenture e Anthropic, accordo per accelerare l’innovazione delle aziende
Nasce l’Accenture Anthropic Business Group
Il nuovo Business Group rende Anthropic uno dei partner strategici di Accenture. I 30.000 professionisti coinvolti riceveranno una formazione dedicata su Claude, inclusi ingegneri specializzati nell’integrazione dei modelli negli ambienti dei clienti. I team uniranno le competenze di Accenture in ambito IA, industria e funzioni aziendali con i modelli Claude e Claude Code di Anthropic, facendo leva anche sulle partnership cloud già consolidate.
Particolare attenzione viene riservata ai settori regolamentati, come servizi finanziari e sanità, per i quali Accenture metterà a disposizione playbook specifici. Per le organizzazioni, questo approccio si traduce in implementazioni più rapide e con minori rischi, grazie alla possibilità di accedere a competenze già pronte anziché costruire capacità di IA partendo da zero.
Una nuova offerta per i CIO e lo sviluppo software potenziato dall’IA
Accenture e Anthropic lanceranno inoltre una nuova offerta congiunta rivolta ai CIO, progettata per misurare il valore e scalare lo sviluppo software potenziato dall’IA nelle funzioni di ingegneria. Si tratta del primo prodotto derivante dalla collaborazione e propone un percorso strutturato per trasformare il modo in cui il software enterprise viene progettato, sviluppato e mantenuto.
Claude Code viene posizionato al centro del ciclo di vita dello sviluppo software, integrato con tre capacità chiave di Accenture: un framework per la misurazione della produttività reale e del ROI, la riprogettazione dei workflow per team di sviluppo orientati all’IA, e programmi di gestione del cambiamento e formazione che evolvono insieme alla tecnologia.
L’obiettivo dichiarato è trasformare i guadagni di produttività degli sviluppatori in impatto aziendale diffuso, attraverso rilasci più rapidi, cicli di sviluppo più brevi e una maggiore capacità di portare nuovi prodotti sul mercato in tempi anticipati. Il comunicato evidenzia come Claude sia già utilizzato da centinaia di migliaia di aziende e come Claude Code consenta agli sviluppatori junior di raggiungere livelli di produttività comparabili a quelli senior, riducendo significativamente i tempi di onboarding, mentre gli sviluppatori più esperti possono concentrarsi su attività a maggior valore.
Soluzioni dedicate per i settori regolamentati
La partnership prevede anche lo sviluppo di soluzioni verticali per settori altamente regolamentati, tra cui servizi finanziari, life sciences, sanità e settore pubblico. In questi contesti, le organizzazioni devono affrontare contemporaneamente la modernizzazione dei sistemi e il rispetto di requisiti stringenti in termini di sicurezza e governance.
Nel settore finanziario, la capacità di Claude di analizzare documenti complessi e di grandi dimensioni, unita all’esperienza normativa di Accenture, supporta l’automazione dei workflow di compliance e decisioni più rapide in contesti ad alta criticità. In ambito sanitario e life sciences, l’integrazione tra le competenze di Accenture e le capacità analitiche di Claude consente ai ricercatori di interrogare dataset proprietari, generare protocolli sperimentali e semplificare la gestione delle sperimentazioni cliniche. Nel settore pubblico, vengono citati agenti IA progettati per aiutare i cittadini a orientarsi tra servizi complessi, garantendo al contempo privacy e conformità normativa.
Un approccio condiviso all’IA responsabile
La collaborazione tra Accenture e Anthropic si fonda su un impegno comune verso un’IA responsabile. I principi di “constitutional AI” di Anthropic vengono integrati con l’esperienza di Accenture nella governance dell’IA, con l’obiettivo di consentire alle imprese di implementare soluzioni sicure, trasparenti e affidabili.
Per favorire l’interazione diretta con le grandi organizzazioni globali, Accenture integrerà Claude nella propria rete di Accenture Innovation Hubs. Questi spazi fungeranno da ambienti controllati per la co-progettazione, la sperimentazione e la validazione di soluzioni IA prima della distribuzione su scala enterprise. Come parte del Business Group, è previsto anche il lancio di un Claude Center of Excellence all’interno di Accenture, dedicato allo sviluppo congiunto di soluzioni su misura per specifiche esigenze aziendali e settoriali.
L’accordo tra Accenture e Anthropic si inserisce così in una strategia più ampia di accompagnamento delle imprese verso un’adozione dell’intelligenza artificiale strutturata, misurabile e integrata nei processi chiave, con un’attenzione dichiarata a sicurezza, governance e responsabilità.
TIME nomina gli Architetti dell’IA Persona dell’Anno 2025. La copertina ricrea la foto iconica del 1932 con gli otto leader che stanno costruendo l’infrastruttura dell’intelligenza artificiale.
Undici operai seduti su una trave d’acciaio, i piedi sospesi nel vuoto a 260 metri sopra Manhattan. Era il 20 settembre 1932, nel pieno della Grande Depressione, e quella foto – “Lunch Atop a Skyscraper” – divenne il simbolo di un’America che costruiva il proprio futuro con le mani, mattone dopo mattone, grattacielo dopo grattacielo.
Novantatre anni dopo, TIME ha scelto di rievocare quell’immagine per raccontare un’altra rivoluzione. Sulla copertina del numero dedicato alla Persona dell’Anno 2025, gli operai sono stati sostituiti da otto figure in giacca e cravatta: i leader che stanno costruendo l’infrastruttura dell’intelligenza artificiale.
Non più acciaio e cemento, ma chip, modelli linguistici, data center.
È una scelta coraggiosa con un messaggio chiaro. E cioè che ci troviamo nel mezzo di una trasformazione paragonabile a quella che ridisegnò lo skyline di New York un secolo fa. E non solo.
Siamo nel mezzo di una trasformazione simile a quella che cambiò il modo di lavorare, il modo di concepire il lavoro. Anche la IA sta cambiando il modo di lavorare e lo vedremo. Tutti temi alla base di questa scelta.
Gli Architetti dell’IA sono la Persona dell’Anno 2025 di TIME
Perché TIME ha scelto gli “Architetti dell’IA”
La motivazione ufficiale è diretta: “Per aver inaugurato l’era delle macchine pensanti, per aver stupito e preoccupato l’umanità, per aver trasformato il presente e trasceso il possibile“. Ma c’è di più.
Il 2025 è stato l’anno in cui l’intelligenza artificiale è passata da tecnologia emergente a infrastruttura pervasiva. ChatGPT ha superato gli 800 milioni di utenti settimanali attivi. L’84% degli studenti delle scuole superiori americane utilizza l’IA generativa per i compiti scolastici. E soprattutto, i modelli hanno smesso di limitarsi a rispondere: hanno iniziato a fare cose.
Nick Turley, responsabile di ChatGPT in OpenAI, lo spiega così nell’articolo di TIME: “Vedere ChatGPT evolversi da partner conversazionale a qualcosa che può andare a fare vero lavoro per te è una transizione molto, molto importante che la maggior parte delle persone non ha ancora registrato“.
È il passaggio dall’IA generativa all’IA agentica. E segna un cambio di paradigma.
La copertina: operai del 1932 e architetti del 2025
Da sinistra a destra: Mark Zuckerberg (Meta), Lisa Su (AMD), Elon Musk (xAI), Jensen Huang (Nvidia), Sam Altman (OpenAI), Demis Hassabis (Google DeepMind), Dario Amodei (Anthropic), Fei-Fei Li (Stanford Human-Centered AI Institute e World Labs).
Un parallelo evocativo. Nel 1932, quegli undici uomini rappresentavano una forza lavoro che stava letteralmente costruendo il futuro dell’America, con i muscoli, con il coraggio, spesso senza reti di sicurezza.
Nel 2025, questi otto leader stanno costruendo qualcosa di altrettanto monumentale: l’infrastruttura computazionale su cui poggerà l’economia dei prossimi decenni.
Ma c’è anche una differenza sostanziale. Gli operai del 1932 erano anonimi, ci sono voluti decenni per identificare anche solo due di loro. I costruttori del 2025 sono tra le persone più ricche e potenti del pianeta.
Jensen Huang, a 62 anni, guida l’azienda con la maggiore capitalizzazione al mondo. Elon Musk è l’uomo più ricco della Terra.
Il potere si è spostato. E la foto lo racconta senza bisogno di didascalie.
Chi sono gli otto “Architetti dell’IA”
Jensen Huang – CEO di Nvidia, l’azienda che produce i chip su cui gira praticamente tutta l’intelligenza artificiale contemporanea. Nvidia ha raggiunto i 5.000 miliardi di dollari di capitalizzazione. Huang è diventato consigliere informale di Donald Trump, che lo chiama regolarmente a tarda notte.
Sam Altman – CEO di OpenAI, l’azienda che ha lanciato ChatGPT nel novembre 2022 e ha innescato la corsa all’IA generativa. Nel 2025, OpenAI ha completato la trasformazione in azienda for-profit e si prepara a ricevere investimenti per 500 miliardi di dollari attraverso il progetto Stargate.
Elon Musk – Fondatore di xAI, l’ultima delle sue imprese, dedicata allo sviluppo di Grok. Ha costruito data center in tempi record. Rimane una figura controversa ma evidentemente centrale in questa fase.
Mark Zuckerberg – CEO di Meta, ha integrato chatbot AI in Instagram, WhatsApp e Facebook. Ha avviato una campagna aggressiva di acquisizione di talenti, offrendo ai migliori ingegneri di machine learning compensi superiori a quelli dei giocatori professionisti.
Lisa Su – CEO di AMD, sta costruendo un ecosistema software per competere con Nvidia. Nell’articolo di TIME dichiara: “Il 2025 è l’anno in cui l’IA è diventata davvero produttiva per le aziende“.
Demis Hassabis – CEO di Google DeepMind, il laboratorio che ha sviluppato AlphaFold (previsione della struttura delle proteine) e continua a guidare la ricerca fondamentale. Mantiene un approccio cauto sui rischi: “Non sappiamo ancora abbastanza sull’IA per quantificare effettivamente il rischio“.
Dario Amodei – CEO di Anthropic, l’azienda che sviluppa Claude e si posiziona come il laboratorio più attento alla sicurezza. Ha fatto una previsione che sta facendo discutere: l’IA potrebbe portare la disoccupazione al 20% nei prossimi cinque anni.
Fei-Fei Li – Co-direttrice dello Stanford Human-Centered AI Institute e fondatrice di World Labs. È l’unica accademica del gruppo, e rappresenta la voce della ricerca etica e dello sviluppo responsabile.
Gli Architetti dell’IA sono la Persona dell’Anno 2025 di TIME
Come cambia il lavoro con la IA
I numeri nell’articolo di TIME sono impressionanti. In Anthropic, Claude scrive fino al 90% del proprio codice. In Nvidia, strumenti come Cursor e Claude Code sono utilizzati dalla quasi totalità degli ingegneri. E questo ha permesso all’azienda di quadruplicare la produzione di chip raddoppiando solo il personale.
Satya Nadella, CEO di Microsoft, ha rivelato che il 30% del codice dell’azienda è ora scritto dall’IA. Contemporaneamente, oltre il 40% dei licenziamenti recenti ha riguardato ingegneri software.
Il World Economic Forum prevede che 92 milioni di posti di lavoro saranno eliminati entro il 2030. Ma anche che ne emergeranno 170 milioni di nuovi. Il saldo è positivo, ma il problema è la distribuzione: i nuovi lavori non saranno negli stessi luoghi, non richiederanno le stesse competenze, e non andranno alle stesse persone.
Jensen Huang offre una prospettiva diversa: “Alcuni lavori scompariranno. Ma finché la domanda è alta per quella particolare industria, sono abbastanza fiducioso che l’IA guiderà produttività, crescita dei ricavi e quindi più assunzioni“. E aggiunge una frase che sta diventando un mantra: “Se non usi l’IA, perderai il lavoro a favore di qualcuno che la usa“.
L’IA generativa lascia il passo all’IA agentica
È questo il passaggio cruciale che emerge dall’articolo di TIME e che definirà il 2026. I modelli linguistici hanno acquisito nuove capacità: memoria (ricordano le conversazioni precedenti), accesso a strumenti esterni (possono cercare sul web, consultare database, eseguire codice), connessione ad altre fonti dati (email, cloud, calendari).
Non si limitano più a generare testo. Ragionano, pianificano, eseguono.
IA Agentica
L’IA agentica – secondo la definizione di Gartner – è “un sistema di intelligenza artificiale autonomo che pianifica, ragiona e agisce per completare compiti con minima supervisione umana“.
La differenza rispetto all’IA generativa è sostanziale: mentre ChatGPT risponde a un prompt, un agente AI può prendere un obiettivo complesso, scomporlo in sotto-compiti, eseguirli in sequenza, adattarsi agli imprevisti.
BCG stima che gli agenti AI possano accelerare i processi aziendali del 30-50%. McKinsey parla di “paradigm shift”: otto aziende su dieci hanno implementato l’IA generativa, ma altrettante non hanno ancora registrato impatti significativi sui risultati. Gli agenti promettono di colmare questo divario.
Capgemini riporta che l’82% delle organizzazioni pianifica di integrare agenti AI entro il 2026. Gartner prevede che entro il 2028, il 33% delle applicazioni software aziendali incorporerà funzionalità agentiche — rispetto a quasi zero nel 2023.
La rivoluzione della IA e la questione europea
C’è un’assenza evidente nella copertina di TIME: l’Europa.
Otto figure, tutte americane (con l’eccezione di Hassabis, britannico) o cinesi di formazione americana. Nessun europeo.
Non è un caso. L’articolo dedica ampio spazio alla competizione tra Stati Uniti e Cina. Il rilascio di DeepSeek a gennaio, definito “il momento Sputnik di Pechino“, ha scosso la Silicon Valley e accelerato la corsa. Ma l’Europa compare solo come spettatrice regolatrice.
È una fotografia impietosa della nostra posizione. L’Unione Europea ha il Digital Services Act, l’AI Act, un quadro normativo avanzato.
Ma non ha Nvidia, non ha OpenAI, non ha Anthropic. Non ha le infrastrutture adeguate per permettere che ci sia una “Nvidia” europea.
Il quesito che dovremmo porci è se la regolamentazione (per quanto necessaria ovviamente), da sola, sia sufficiente a garantirci un ruolo in questa trasformazione. O se rischiamo di diventare consumatori di un’infrastruttura progettata e controllata altrove.
Cosa succederebbe se l’Europa venisse isolata dal punto di vista digitale e tecnologico? Quale sarebbe il piano B?
Rivoluzione IA, rischi e opportunità
L’articolo di TIME non nasconde i rischi. Cita i casi di suicidio legati all’interazione con chatbot, il fenomeno della “psicosi da chatbot”, l’uso di deepfake per la disinformazione. Papa Leone XIV ha avvertito che l’IA potrebbe “manipolare i bambini e servire ideologie antiumane“.
Dario Amodei stima che l’IA potrebbe portare la disoccupazione al 20% nei prossimi cinque anni. Demis Hassabis ammette che “c’è ancora un rischio significativo” nel non sapere se sarà facile mantenere il controllo di questi sistemi.
Trump ha riassunto lo spirito del momento parlando direttamente a Huang durante una visita nel Regno Unito: “Non so cosa stai facendo qui. Spero che tu abbia ragione”.
Il senso della copertina del TIME
“Lunch Atop a Skyscraper” fu scattata come foto promozionale per il Rockefeller Center. Una trovata pubblicitaria mascherata da momento spontaneo. Divenne il simbolo di un’epoca.
La copertina di TIME del 2025 compie un’operazione simile. È una celebrazione, certo, ma anche un documento. Fissa un momento in cui il potere di plasmare il futuro si è concentrato nelle mani di poche persone. E questo concetto viene fissato con un’immagine che, come l’originale, rimarrà negli archivi.
Nel 1932, quegli operai costruivano un grattacielo. Nel 2025, questi architetti costruiscono qualcosa di più ambizioso: l’infrastruttura su cui poggerà il pensiero automatizzato, l’economia algoritmica, forse la prossima fase della civiltà umana.
È una responsabilità enorme. E la foto, con quegli otto leader (sei uomini e due donne) sospesi nel vuoto sopra Manhattan, lo racconta meglio di qualsiasi editoriale.
Operation Bluebird, startup guidata dall’ex responsabile marchi di Twitter, ha chiesto all’USPTO di cancellare i marchi Twitter e tweet da X Corp per rilanciare la piattaforma con twitter.new.
È una di quelle notizie che, a prima lettura, sembra quasi paradossale. Ma sicuramente mette di buonumore i tanti nostalgici che dal 2022 sperano in un ritorno.
Negli anni abbiamo assistito a piattaforme che hanno segnato il tempo, poi scomparse quando gli algoritmi sono diventati più importanti degli utenti. E ora si torna a parlare di Twitter, mai del tutto dimenticato.
Eppure è tutto vero, e la base legale su cui poggia è tutt’altro che trascurabile.
L’obiettivo è quello di utilizzare quei marchi per lanciare una nuova piattaforma social, chiamata twitter.new, che intende riportare in vita lo spirito originario della “piazza pubblica digitale” che Twitter rappresentava prima dell’acquisizione da parte di Musk nel 2022.
Operation Bluebird e il possibile ritorno di Twitter
Chi c’è dietro Operation Bluebird
La startup non è guidata da improvvisati. Anzi, il team legale conosce molto bene il terreno ispido su cui si muove.
Stephen Jadie Coates, general counsel di Operation Bluebird, è stato Associate Director for Trademarks, Domain Names and Marketing di Twitter dal 2014 al 2016. È stato lui, di fatto, il primo responsabile marchi assunto dall’azienda, colui che ha costruito da zero la strategia di protezione del brand Twitter. Conosce ogni sfumatura legale di quei marchi perché li ha gestiti in prima persona.
Al suo fianco c’è Michael Peroff, fondatore di Operation Bluebird, avvocato specializzato in proprietà intellettuale e protezione dei marchi con base nell’Illinois e quasi 15 anni di esperienza nel settore.
Non si tratta quindi di un tentativo opportunistico di qualche sconosciuto. Chi sta dietro questa operazione ha le competenze tecniche per comprendere esattamente cosa sta facendo e quali sono le probabilità di successo.
L’argomento legale: l’abbandono del marchio
La petizione di Operation Bluebird si basa su un principio cardine del diritto dei marchi statunitense. In buona sostanza: se non usi un marchio commercialmente, rischi di perderlo.
Il Lanham Act (15 U.S.C. § 1127) stabilisce infatti che un marchio si considera “abbandonato” quando il suo uso è stato interrotto con l’intenzione di non riprenderlo.
Secondo la normativa americana, tre anni consecutivi di non utilizzo creano una presunzione di abbandono. E qui i fatti sono abbastanza chiari:
Nel luglio 2023, Musk ha annunciato pubblicamente che l’azienda avrebbe “dato l’addio al brand Twitter e, gradualmente, a tutti gli uccelli” (“we shall bid adieu to the Twitter brand and, gradually, all the birds“).
And soon we shall bid adieu to the twitter brand and, gradually, all the birds
Il termine “tweet” è stato sostituito con “post” in tutta l’interfaccia e nelle comunicazioni ufficiali.
Come ha dichiarato Coates a Reuters: “X ha abbandonato legalmente il marchio TWITTER“. La questione, secondo lui, è “straightforward”, lineare.
Il paradosso del rinnovo del 2023
Un elemento interessante della vicenda riguarda il fatto che X Corp ha effettivamente rinnovato la registrazione del marchio Twitter nel 2023. Ma quel rinnovo è stato approvato mentre l’azienda stava attivamente eliminando ogni traccia del brand dai propri prodotti e servizi.
Come osservato da esperti di proprietà intellettuale, questa situazione crea un paradosso. Infatti, rinnovare un marchio che si sta pubblicamente demolendo è un po’ come “rinnovare l’abbonamento alla palestra mentre la stai demolendo”.
Il semplice rinnovo burocratico, in assenza di un uso commerciale effettivo, potrebbe non bastare a proteggere il marchio. Altri esperti, come Mark Lemley, professore di diritto a Stanford ed esperto di diritto dei brand, sostiene che “un uso meramente simbolico non basta a preservare il marchio”.
Interfaccia twitter.new
Il progetto twitter.new
Operation Bluebird non si limita a chiedere la cancellazione dei marchi. Nei fatti, ha già presentato una domanda di registrazione per “Twitter” e sta costruendo una piattaforma alternativa.
Sul sito twitter.new è già possibile riservare il proprio username in vista del lancio, previsto potenzialmente per la fine del 2026.
Il messaggio sulla homepage è programmatico: “The public square is broken, but we still believe in it. One brand tried to fix it, then burned it all down. We are bringing it back – this time with trust” – La piazza pubblica è rotta, ma ci crediamo ancora. Un brand ha provato a sistemarla, poi ha dato fuoco a tutto. La stiamo riportando in vita – questa volta con fiducia.
Come ha spiegato Peroff ad Ars Technica, l’obiettivo non è solo rilanciare un nome: “Esistono certamente alternative come Threads, Mastodon e Bluesky, ma nessuna ha raggiunto la scala o il riconoscimento del brand che Twitter aveva prima dell’acquisizione di Musk“.
Ha aggiunto Coates: “Ricordo quando celebrity reagivano ai miei contenuti su Twitter durante il Super Bowl o altri eventi. Vogliamo che quell’esperienza torni, quella piazza pubblica dove tutti eravamo coinvolti insieme“.
Quali gli scenari che si aprono
La petizione di Operation Bluebird apre scenari legali interessanti e pone X Corp di fronte a un dilemma strategico. X Corp ha tempo fino ai primi di febbraio 2026 per presentare una risposta formale alla petizione di cancellazione.
Se X decidesse di difendere i marchi, dovrà dimostrare di utilizzarli ancora commercialmente o di avere intenzione di riprenderne l’uso. Ma questo contraddirebbe le dichiarazioni pubbliche di Musk e le azioni concrete dell’azienda negli ultimi due anni. Difendere un brand che hai pubblicamente “annullato” creerebbe inoltre un paradosso enorme: se Twitter ha ancora valore, perché l’hai abbandonato?
Se X non difendesse i marchi, Operation Bluebird potrebbe appropriarsi di uno dei nomi più riconoscibili nella storia dei social media. Un brand costruito in oltre 15 anni passerebbe nelle mani di una startup. Per ricominciare a volare.
C’è però un terzo elemento da considerare. Anche in caso di cancellazione dei marchi registrati, X Corp potrebbe comunque citare in giudizio Operation Bluebird per violazione di marchio basandosi sul concetto di “residual goodwill” (avviamento residuo).
La domanda che tutti gli esperti, e non solo, si fanno in questo momento: “Ma davvero Musk spenderebbe milioni di dollari per proteggere un brand che ha deliberatamente gettato nella spazzatura?“. In effetti, Operation Bluebird sta scommettendo che la risposta sia no.
Al di là dell’esito specifico di questa controversia del tutto inattesa, il caso Operation Bluebird solleva questioni rilevanti per il mondo corporate e per chiunque si occupi di brand management.
In primo luogo, evidenzia i rischi di un rebranding totale senza una chiara strategia di gestione dei marchi legacy. Le aziende che cambiano radicalmente identità devono decidere se difendere formalmente i vecchi marchi, cederli in modo controllato, o accettare che possano essere reclamati da altri.
In secondo luogo, il caso dimostra che marchi iconici non sono immuni dall’abbandono legale. Anche un nome riconosciuto globalmente come Twitter può diventare vulnerabile se il proprietario smette di utilizzarlo in modo sostanziale.
Infine, la vicenda rappresenta un interessante precedente su come le decisioni di un singolo proprietario possano alterare radicalmente il destino di asset intangibili dal valore inestimabile.
Musk ha pagato 44 miliardi di dollari per Twitter nel 2022; ma ora qualcun altro potrebbe ottenere il diritto di usare quel nome attraverso una petizione legale.
Per chiudere, la vicenda Operation Bluebird rappresenta qualcosa di più di una vicenda legale. È un caso che potrebbe stabilire, intanto, un precedente significativo su come le aziende tech gestiscono (o non gestiscono) i propri asset di brand durante processi di rebranding radicale.
E se tutto dovesse andare bene, permetterebbe all’uccellino blu di tornare a volare. Senza che ci sia di mezzo Elon Musk.
La Commissione UE multa X, la piattaforma di Elon Musk, per €120 milioni. Si tratta della prima sanzione della storia ai sensi del DSA. Tre le violazioni: spunta blu ingannevole, assenza di trasparenza pubblicitaria, mancato accesso ai ricercatori.
Dopo oltre due anni di indagini, la Commissione Europea ha inflitto oggi, 5 dicembre 2025, la prima multa della storia ai sensi del Digital Services Act (DSA). A riceverla è X, la piattaforma di Elon Musk.
Si tratta di una decisione attesa, che seguo su questo blog da aprile scorso, quando il New York Times anticipò l’imminenza della sanzione, e che si inserisce in un contesto di tensioni crescenti tra Bruxelles e Washington.
Una decisione che, al di là della cifra, modesta se rapportata al patrimonio di Musk, stimato in oltre 450 miliardi di dollari, segna un precedente storico per la regolamentazione delle piattaforme digitali in Europa.
L’UE multa X anche per le spunte blu ingannevoli
Le tre violazioni accertate: spunta blu, pubblicità e ricercatori
La prima, e forse la più significativa, riguarda il design ingannevole della spunta blu. Quella che un tempo era il simbolo – gratuito – di verifica delle identità ufficiali è diventata, sotto la gestione Musk, un servizio a pagamento. Il problema, secondo i regolatori europei, è che un account con la spunta blu potrebbe non essere più un utente reale, ma un bot. Questo espone gli utenti a truffe e manipolazioni, minando la fiducia nella piattaforma.
La seconda violazione riguarda l’opacità del registro pubblicitario. Il DSA impone alle piattaforme di mantenere un archivio pubblico di tutte le inserzioni pubblicitarie, con dettagli su chi le ha pagate e a quale pubblico erano destinate. Questo strumento serve a ricercatori e utenti per individuare truffe, pubblicità ingannevoli e campagne di influenza coordinate. Il registro di X, secondo la Commissione, è compromesso da barriere di accesso e eccessivi ritardi nell’elaborazione delle richieste.
La terza violazione riguarda il mancato accesso ai dati pubblici per i ricercatori. X avrebbe eretto “barriere non necessarie” per impedire agli studiosi di accedere ai dati della piattaforma, ostacolando di fatto la ricerca indipendente sulla disinformazione e sulla manipolazione dell’informazione.
La posizione della Commissione: “Modesta ma proporzionata”
A presentare la decisione è stata Henna Virkkunen, vicepresidente esecutiva della Commissione Europea per la Sovranità tecnologica, la Sicurezza e la Democrazia. La Commissaria si è così espressa: “Ingannare gli utenti con le spunte blu, oscurare le informazioni sulla pubblicità e chiudere le porte ai ricercatori non hanno posto online nell’UE. Con questa prima decisione di non conformità al DSA, riteniamo X responsabile di aver minato i diritti degli utenti e di aver eluso la trasparenza”.
La Commissaria ha poi risposto alle accuse di censura arrivate dagli Stati Uniti: “È molto importante sottolineare che il DSA non ha nulla a che fare con la censura. Non siamo qui per imporre le multe più alte. Siamo qui per assicurarci che la nostra legislazione digitale venga applicata. Se rispetti le nostre regole, non ricevi multe. È così semplice”.
La multa, ha precisato Virkkunen, è stata calcolata sulla base della natura delle violazioni, della loro gravità in termini di utenti UE coinvolti e della durata delle inadempienze. Una sanzione “modesta ma proporzionata“, ben al di sotto del massimo previsto dal DSA, che può arrivare fino al 6% del fatturato globale annuo.
Le tempistiche: 60 e 90 giorni per adeguarsi
X ha ora 60 giorni per comunicare alla Commissione come intende risolvere il problema del design ingannevole delle spunte blu, e 90 giorni per presentare un piano per risolvere le criticità del registro pubblicitario e dell’accesso ai dati per i ricercatori.
Il mancato adeguamento potrebbe comportare ulteriori sanzioni.
È importante sottolineare che questa decisione riguarda solo una parte dell’indagine su X. Restano aperte altre due procedure. Nello specifico, una sulla gestione dei contenuti illegali e sulle misure per contrastarli; l’altra sull’algoritmo di raccomandazione, con particolare attenzione alla radicalizzazione terroristica e alle campagne elettorali. Su questi fronti, la Commissione non ha ancora raggiunto conclusioni preliminari.
La reazione del vicepresidente Usa, J.D.Vance
La tensione tra Washington e Bruxelles si era già manifestata prima ancora che la multa fosse annunciata. Il vicepresidente americano J.D. Vance ha pubblicato su X un post al vetriolo: “Circolano voci che la Commissione UE multerà X per centinaia di milioni di dollari per non aver praticato la censura. L’UE dovrebbe sostenere la libertà di parola, non attaccare le aziende americane per spazzatura“.
Rumors swirling that the EU commission will fine X hundreds of millions of dollars for not engaging in censorship. The EU should be supporting free speech not attacking American companies over garbage.
Non è la prima volta che Vance si scaglia contro la regolamentazione digitale europea.
A febbraio di quest’anno, durante la Conferenza sulla sicurezza di Monaco, aveva definito i Commissari europei “commissari dell’UE”, evocando la polizia politica sovietica. Un linguaggio che tradisce una visione profondamente diversa del rapporto tra piattaforme digitali, libertà di espressione e responsabilità.
La decisione, come già altre volte ricordato, arriva peraltro in un momento delicato per le relazioni transatlantiche, già sotto pressione per le questioni commerciali e per la guerra in Ucraina.
Fonti europee hanno precisato che la politica americana non ha influenzato la decisione, e che il ritardo di due anni nell’arrivare alla sanzione è dovuto alla volontà di costruire un caso giuridicamente solido, anticipando un probabile ricorso da parte di X.
Il contesto: da Twitter a xAI, la trasformazione di una piattaforma
Per comprendere il significato di questa sanzione, è utile fare un passo indietro.
Come ricorderete, lo abbiamo raccontato qui su InTime Blog, Musk ha acquisito Twitter nell’ottobre 2022 per 44 miliardi di dollari, ribattezzandola X e avviando una radicale ristrutturazione. Un ribaltamento totale della piattaforma a suon di tagli massicci al personale, revisione degli algoritmi, monetizzazione della spunta blu.
A marzo 2025, X è stata acquisita da xAI, la società di intelligenza artificiale fondata da Musk nel 2023. L’operazione, interamente in azioni, ha valutato X 33 miliardi di dollari (45 miliardi, meno 12 miliardi di debito) e xAI 80 miliardi.
Una fusione che, nelle parole di Musk, punta a “combinare dati, modelli, potenza di calcolo, distribuzione e talento” per costruire “una piattaforma che non si limiti a riflettere il mondo, ma che acceleri attivamente il progresso umano”.
Questa integrazione rende la multa odierna ancora più significativa. La sanzione è stata emessa nei confronti di Musk e xAI, che ora possiede X. E apre scenari inediti sulla regolamentazione delle piattaforme che integrano social media e intelligenza artificiale.
Una sanzione che era attesa
Questa sanzione non arriva inattesa per chi legge InTime Blog.
Ad aprile, analizzavo gli scenari possibili sulla base delle anticipazioni del New York Times, che parlava di una multa potenziale superiore al miliardo di euro.
A maggio, raccontavo la lettera di venti eurodeputati alla Commissaria Virkkunen, che dopo 500 giorni dall’apertura dell’indagine chiedevano risposte concrete su bias algoritmico, disinformazione e rischi per la democrazia.
Oggi quelle risposte, almeno in parte, sono arrivate. La sanzione è inferiore alle previsioni, certo, ma il messaggio dell’UE è chiaro: le regole valgono per tutti. Anche per l’uomo più ricco del mondo.
In quali paesi del mondo X è effettivamente vietata
In queste ore, dopo la multa comminata dall’UE a X per la violazione del DSA, come abbiamo visto, in 3 precisi ambiti, è scattata la narrazione secondo cui l’Unione Europea censura la libertà di parola.
E, ovviamente, non è vero. La multa non c’entra con la libertà di espressione.
Ma questa è l’occasione per fare chiarezza e per sapere dove al momento X è davvero vietata, e per quale motivo.
Ecco i paesi in cui X è vietata:
PAESI IN CUI X È ATTUALMENTE VIETATA
Paese
Data del ban
Motivazione
Cina
giugno 2009
Controllo politico dopo le rivolte nello Xinjiang. Blocco di tutte le piattaforme social straniere per prevenire influenze estere e contenuti “politicamente sensibili”
Iran
2009
Elezioni presidenziali contestate. Blocco per impedire la diffusione del dissenso e controllare la narrativa governativa
Corea del Nord
2016
Controllo totale dell’informazione. Accesso a internet limitato a pochi funzionari di alto rango
Turkmenistan
2008
Controllo totale dell’informazione. Accesso solo tramite intranet statale “Turkmenet”. Blocca anche Facebook, YouTube, WhatsApp
Russia
marzo 2022
Invasione dell’Ucraina. Roskomnadzor mantiene il blocco perché X non ha rimosso oltre 1.300 contenuti “vietati” (critiche alla guerra, contenuti anti-governativi)
Myanmar
febbraio 2021
Colpo di stato militare. Blocco per reprimere il dissenso e controllare il flusso di informazioni
Venezuela
agosto 2024
Proteste post-elettorali contro Maduro. Ban iniziale di 10 giorni, poi esteso a tempo indefinito. Motivazione ufficiale: “incitamento all’odio, al fascismo e alla guerra civile”
In molti, proprio in queste ore stanno, paragonando l’UE alla Corea del Nord. Solo che alla luce della realtà tutto questo suona come un cortocircuito che spiega molte cose.
Cosa comporta la multa a X
Questa prima sanzione ai sensi del DSA rappresenta un test cruciale per la credibilità della regolamentazione europea sulle piattaforme digitali.
Per la prima volta, l’Unione Europea dimostra di essere disposta a passare dalle parole ai fatti, sanzionando una delle piattaforme più influenti al mondo e sfidando apertamente le pressioni politiche americane.
La partita, va detto, è tutt’altro che chiusa. Musk ha già annunciato l’intenzione di contestare eventuali sanzioni in tribunale, e le altre indagini su X restano aperte.
Ma una cosa è certa. Questo passaggio finirà per inasprire le relazioni Usa-UE in un delicato momento storico. Una parte politica americana, molto consistente, spingerà affinché l’amministrazione Trump adotti iniziative in risposta a questa multa.
Quindi c’è da attendersi, nei prossimi giorni e nelle prossime settimane una reazione da parte degli Usa che non sarà solo rumorosa.
Ecco l’atteso Spotify Wrappred 2025, il racconto musicale dell’anno. Bad Bunny è l’artista più ascoltato al mondo, Sfera Ebbasta in Italia. C’è molto Sanremo negli ascolti e infatti Olly domina canzoni e album. Tra i podcast, Elisa True Crime si conferma al primo posto.
La piattaforma di streaming musicale conferma numeri significativi: oltre 700 milioni di utenti in tutto il mondo hanno contribuito a definire le tendenze musicali e podcast dell’anno appena trascorso.
L’esperienza in-app, disponibile da oggi direttamente nell’applicazione aggiornata per iOS e Android, offre un percorso immersivo e personalizzato che mette in relazione i gusti individuali con i trend globali. Una formula che si conferma vincente e che trasforma le scelte di ascolto individuali in tendenze collettive.
Spotify Wrapped 2025, ecco artisti e classifiche in Italia e nel mondo
Wrapped 2025, il panorama italiano: rap in cima, Sanremo motore del successo
La classifica degli artisti più ascoltati in Italia nel 2025 vede il ritorno in vetta di Sfera Ebbasta, seguito da Shiva, Guè, Geolier e Marracash.
Il rap si conferma genere dominante, ma con sfumature sempre più diversificate: dal mumble rap di Tony Boy (artista selezionato in Spotify RADAR Italia 2024) all’emergente Glocky, parte di Spotify RADAR Italia 2025 e già alla posizione 50 della classifica generale.
Il dato più rilevante riguarda tuttavia il ruolo di Sanremo come fucina di successi. Ben quattro brani su dieci nella top 10 delle canzoni più ascoltate provengono direttamente dal Festival: “Balorda nostalgia” di Olly e Juli al primo posto, seguita da “Incoscienti Giovani” di Achille Lauro, “LA CURA PER ME” di Giorgia e “BATTITO” di Fedez.
La canzone e l’album più ascoltati in Italia sono entrambi di Olly: “Balorda nostalgia” (con Juli) e “TUTTA VITA (SEMPRE)” segnano l’affermazione di una nuova generazione di cantautori che affianca il dominio del rap.
ANNA regina delle artiste per il terzo anno consecutivo
Nella classifica delle artiste più ascoltate, ANNA si conferma al primo posto per il terzo anno di fila, seguita da Elodie e Rose Villain. Taylor Swift e Lady Gaga completano la top 5, mentre tra le italiane si distinguono Annalisa, Elisa e Giorgia.
Sonorità latine e contaminazione: il caso La Plena
Il panorama musicale italiano mostra una crescente apertura alle influenze internazionali. “La Plena – W Sound 05” di W Sound, Beéle e Ovy On The Drums si piazza al quarto posto tra le canzoni più ascoltate, mentre “DtMF” di Bad Bunny entra in quinta posizione. L’album “DeBÍ TiRAR MáS FOToS” dello stesso Bad Bunny raggiunge il quarto posto nella classifica album Italia, a testimonianza di come le sonorità latine siano ormai parte integrante della colonna sonora del Paese.
Wrapped 2025, gli italiani che conquistano il mondo
I Måneskin si confermano gli artisti italiani più ascoltati all’estero per il quarto anno consecutivo. Al secondo posto la dance di Gabry Ponte, seguita dal neoclassicismo-minimalista di Ludovico Einaudi. Damiano David, voce dei Måneskin, conquista il quarto posto grazie al lancio del suo album solista “FUNNY little FEARS (DREAMS)”, mentre Laura Pausini chiude la top 5.
Wrapped 2025, lo scenario globale: Bad Bunny domina con 18,8 miliardi di ascolti
A livello mondiale, Bad Bunny torna a essere l’artista più ascoltato per la quarta volta nella storia di Wrapped (dopo 2020, 2021 e 2022), con oltre 18,8 miliardi di ascolti. Sul podio anche Taylor Swift e The Weeknd, seguiti da Drake e Billie Eilish.
“Die With A Smile” di Lady Gaga e Bruno Mars è la canzone più ascoltata al mondo nel 2025, con oltre 1,7 miliardi di riproduzioni. Seguono “BIRDS OF A FEATHER” di Billie Eilish, “APT.” di ROSÉ e Bruno Mars, “Ordinary” di Alex Warren e “DtMF” di Bad Bunny.
L’album più ascoltato a livello globale è “DeBÍ TiRAR MáS FOToS” di Bad Bunny con oltre 7,7 miliardi di riproduzioni totali, seguito dalla colonna sonora del film Netflix “KPop Demon Hunters” e da “HIT ME HARD AND SOFT” di Billie Eilish.
Wrapped 2025, podcast: il true crime non conosce crisi
In Italia il true crime si conferma il genere podcast più ascoltato. “Elisa True Crime” di Elisa De Marco raggiunge il primo posto per il terzo anno consecutivo, seguito da “Indagini” di Stefano Nazzi. A completare la top 5 ci sono “Stories” di Cecilia Sala, “Passa dal BSMT” di Gianluca Gazzoli e “ONE MORE TIME di Luca Casadei”. Dato interessante: il 50% dei podcast nella top 10 italiana sono video podcast, a conferma di un formato in crescita.
A livello globale, “The Joe Rogan Experience” si riconferma il podcast più ascoltato per il sesto anno consecutivo, seguito da “The Diary of a CEO with Steven Bartlett” e “The Mel Robbins Podcast”.
Le novità dell’esperienza Wrapped 2025
Spotify Wrapped 2025 introduce diverse nuove funzionalità nell’esperienza in-app. Tra le novità principali: “Età in base agli ascolti”, uno strumento che confronta i gusti musicali con quelli di altri ascoltatori della stessa fascia d’età; la visualizzazione dell’album più ascoltato dell’anno; la possibilità di ricevere clip personalizzate dal proprio podcaster preferito; la classifica dei “top fan” che permette di scoprire la propria posizione nella classifica mondiale degli ascoltatori del proprio artista preferito.
Interessante anche la novità dei “Club in base agli ascolti”, sei categorie che rappresentano diversi stili di ascolto, e “Wrapped Party”, un’esperienza interattiva per rivivere il proprio anno musicale in tempo reale con altri utenti.
Spotify ha inoltre lanciato la Wrapped Creator Experience 2025, dedicata a podcaster, artisti, inserzionisti e, per la prima volta, anche agli autori, permettendo di esplorare come i fan hanno interagito con i propri contenuti durante l’anno.
I numeri di Spotify
Spotify conta attualmente una community di oltre 713 milioni di utenti, di cui 281 milioni abbonati a Spotify Premium, distribuiti in più di 180 paesi. La piattaforma ospita più di 100 milioni di brani, quasi 7 milioni di podcast e oltre 350 mila audiolibri.
Le classifiche Wrapped 2025
Artisti Italia
Artiste Italia
Italiani all’estero
1. Sfera Ebbasta
1. ANNA
1. Måneskin
2. Shiva
2. Elodie
2. Gabry Ponte
3. Guè
3. Rose Villain
3. Ludovico Einaudi
4. Geolier
4. Taylor Swift
4. Damiano David
5. Marracash
5. Lady Gaga
5. Laura Pausini
6. Tony Boy
6. Annalisa
6. MEDUZA
7. Olly
7. Elisa
7. Eros Ramazzotti
8. Lazza
8. Billie Eilish
8. Andrea Bocelli
9. Artie 5ive
9. Giorgia
9. Gigi D’Agostino
10. Kid Yugi
10. Rihanna
10. Baby Gang
Canzoni Italia
Album Italia
Podcast Italia
1. Balorda nostalgia – Olly, Juli
1. TUTTA VITA (SEMPRE) – Olly, Juli
1. Elisa True Crime
2. Incoscienti Giovani – Achille Lauro
2. DIO LO SA – Geolier
2. Indagini
3. NEON – Sfera Ebbasta, Shiva
3. SANTANA MONEY GANG – Sfera Ebbasta, Shiva
3. Stories
4. La Plena – W Sound 05 – W Sound, Beéle, Ovy On The Drums
4. DeBÍ TiRAR MáS FOToS – Bad Bunny
4. Passa dal BSMT
5. DtMF – Bad Bunny
5. LA BELLAVITA – Artie 5ive
5. ONE MORE TIME di Luca Casadei
6. LA CURA PER ME – Giorgia
6. LOCURA – Lazza
6. La Zanzara
7. Ora che non ho più te – Cesare Cremonini
7. Tropico Del Capricorno – Guè
7. Il podcast di Alessandro Barbero
8. Per due come noi – Olly, Angelina Mango, Juli
8. Tutti i Nomi del Diavolo – Kid Yugi
8. SUPERNOVA
9. BATTITO – Fedez
9. VERA BADDIE – ANNA
9. PULP PODCAST
10. Scarabocchi – Olly, Juli
10. Hello World – Pinguini Tattici Nucleari
10. The Essential
Artisti Globale
Canzoni Globale
1. Bad Bunny
1. Die With A Smile – Lady Gaga, Bruno Mars
2. Taylor Swift
2. BIRDS OF A FEATHER – Billie Eilish
3. The Weeknd
3. APT. – ROSÉ, Bruno Mars
4. Drake
4. Ordinary – Alex Warren
5. Billie Eilish
5. DtMF – Bad Bunny
6. Kendrick Lamar
6. back to friends – sombr
7. Bruno Mars
7. Golden – HUNTR/X, EJAE, Audrey Nuna, Rei Ami, KPop Demon Hunters Cast
8. Ariana Grande
8. luther (with sza) – Kendrick Lamar, SZA
9. Arijit Singh
9. That’s So True – Gracie Abrams
10. Fuerza Regida
10. WILDFLOWER – Billie Eilish
Album Globale
Podcast Globale
1. DeBÍ TiRAR MáS FOToS – Bad Bunny
1. The Joe Rogan Experience
2. KPop Demon Hunters (Soundtrack) – KPop Demon Hunters Cast, HUNTR/X, Saja Boys
Accenture diventa partner di OpenAI per l’adozione dell’AI agentica nelle aziende. In Italia, secondo l’AD Teodoro Lio, si punta sulla digitalizzazione del patrimonio di conoscenza industriale.
Accenture e OpenAI hanno siglato un accordo strategico che ridefinisce il modo in cui l’intelligenza artificiale generativa arriverà nel tessuto produttivo globale. Si tratta di un’alleanza strutturata per accelerare l’adozione dell’AI su larga scala, con numeri che danno la misura dell’investimento.
In virtù di questo accordo, 30.000 professionisti Accenture verranno formati sulle tecnologie OpenAI, mentre un gruppo dedicato lavorerà allo sviluppo di soluzioni pensate per settori specifici.
Il senso dell’operazione lo chiarisce Julie Sweet, Chair e CEO di Accenture: l’obiettivo è aiutare i clienti a passare dalla sperimentazione all’implementazione concreta, integrando l’AI nei processi core del business.
Accenture e OpenAI, partnership per la IA Agentica
Fidji Simo, CEO of Applications di OpenAI, sottolinea il ruolo di Accenture nell’accompagnare le aziende nell’adozione delle tecnologie che definiscono ogni nuova era, un riconoscimento del valore della consulenza come ponte tra innovazione e impresa.
Sul piano operativo, l’accordo si articola su più fronti. Accenture LearnVantage, la piattaforma di formazione del gruppo, integrerà i contenuti di OpenAI Academy per costruire competenze diffuse.
Le soluzioni sviluppate copriranno ambiti chiave: customer experience, software engineering, operations e gestione dei talenti. L’idea è quella di creare strumenti verticali, calibrati sulle esigenze specifiche di industry diverse.
Cosa significa l’accordo per l’Italia
Teodoro Lio – AD Accenture Italia
Per l’Italia, la partnership assume un significato particolare. Teodoro Lio, Amministratore Delegato di Accenture Italia, inquadra l’opportunità in termini netti: “Le organizzazioni italiane hanno oggi un’occasione decisiva: utilizzare l’intelligenza artificiale per creare nuovo valore nei processi, nei servizi e nelle esperienze dei clienti.“
La chiave, secondo Lio, sta nell’accelerare la digitalizzazione del patrimonio di conoscenza che rende unico il sistema industriale italiano, colmando il divario nell’adozione dell’AI e valorizzando la combinazione tra capacità umane e intelligenza aumentata.
“Questa è la leva che può rafforzare la competitività delle nostre eccellenze – industriali, creative, scientifiche – e trasformare la conoscenza in valore per un’innovazione duratura.”
Grazie alla collaborazione con OpenAI, conclude Lio, Accenture continuerà a mettere a disposizione tecnologie e competenze per accompagnare le organizzazioni italiane nel loro percorso di reinvenzione e nel consolidamento della competitività internazionale.
Un accordo in un momento particolare per la IA Generativa
L’accordo tra Accenture e OpenAI si inserisce in una fase in cui il mercato dell’AI generativa sta rapidamente maturando. La corsa non è più solo alla tecnologia migliore, ma alla capacità di implementarla in modo efficace nei contesti reali.
Le grandi società di consulenza diventano così attori chiave di questa transizione, fungendo da ponte tra i laboratori di ricerca e le sale riunioni dove si prendono le decisioni di business.
Per le aziende italiane, la domanda da porsi è relativamente semplice: come sfruttare questa finestra di opportunità senza restare spettatori? La risposta, probabilmente, sta proprio in quel mix di competenze umane e intelligenza artificiale che Lio descrive. Il patrimonio di conoscenza c’è e gli strumenti per valorizzarlo, adesso, anche.
Tre anni fa OpenAI lanciava ChatGPT. E tre anni dopo, un articolo del Financial Times e i dati Similarweb fotografano un cambio di scenario che nessuno avrebbe immaginato. Google sorpassa OpenAI e Altman dichiara “code red”.
Tre anni fa, esattamente il 30 novembre 2022, OpenAI lanciava ChatGPT introducendo a tutti la IA Generativa. In cinque giorni raggiunse un milione di utenti, esattamente il 5 dicembre 2022.
In due mesi arrivò a cento milioni di utenti attivi mensili, una velocità di crescita mai vista prima per nessuna piattaforma digitale.
Per capire la portata di quel fenomeno, basta un veloce confronto: TikTok ha impiegato 9 mesi per raggiungere 100 milioni di utenti, Instagram due anni e mezzo, Facebook quattro anni e mezzo. ChatGPT ha polverizzato ogni record, diventando il simbolo stesso dell’intelligenza artificiale generativa accessibile a tutti.
Con questi numeri ChatGPT è entrato in un club ristrettissimo, quello dei colossi digitali che hanno trasformato il modo in cui le persone interagiscono con la tecnologia. E lo ha fatto in soli tre anni, con una crescita che non ha precedenti nella storia di internet.
Il sorpasso di Google su OpenAI a tre anni dal lancio di ChatGPT
Il grafico di Similarweb che mostra il sorpasso
Partiamo da un dato concreto. Similarweb, una delle fonti più affidabili per l’analisi del traffico web, mostra l’evoluzione del tempo medio per visita sui tre principali chatbot AI: ChatGPT, Gemini di Google e Claude di Anthropic.
Ora, non stiamo parlando di numero di utenti, dove ChatGPT mantiene ancora il vantaggio assoluto con 800 milioni di utenti settimanali contro i 650 milioni mensili di Gemini. Stiamo parlando di coinvolgimento, quindi di engagemente. Ossia di quanto tempo le persone investono, in termini di tempo e attenzione, effettivamente usando questi strumenti.
E qui la differenza si fa interessante. Il tempo per visita misura la qualità dell’interazione, non solo la curiosità iniziale. Significa che gli utenti trovano ragioni concrete per restare, che le risposte reggono conversazioni più lunghe, che il valore percepito giustifica l’investimento di attenzione.
La rimonta di Google su OpenAI
E qui è utile fare un passo indietro.
Un anno fa molti analisti avevano messo in discussione gli sforzi di Google nell’AI generativa. Il lancio disastroso di Bard, gli errori nelle demo pubbliche, la paura che ChatGPT cannibalizzasse il motore di ricerca, la novità che potesse addirittura mettere in crisi l’impero Google.
Poi è successo qualcosa. La svolta è arrivata quest’anno, con la conferenza Google IO di maggio. Google ha presentato una serie di aggiornamenti convincenti, ha mostrato muscoli tecnologici che erano rimasti nascosti, ha dimostrato di avere una strategia integrata.
E poi è arrivato Nano Banana, il tool di editing fotografico con AI che è diventato virale durante l’estate. Sembra un dettaglio, ma non lo è: ha portato l’app mobile di Gemini da 400 milioni di utenti mensili a maggio a 650 milioni a ottobre.
La settimana scorsa Google ha lanciato Gemini 3, il suo ultimo modello di linguaggio. E, secondo le valutazioni tecniche, Gemini 3 ha superato GPT-5 di OpenAI su diversi benchmark chiave. Ha ottenuto miglioramenti nel processo di training che hanno eluso OpenAI negli ultimi mesi.
Marc Benioff, CEO di Salesforce, ha scritto su X: “Ho usato ChatGPT ogni giorno per tre anni. Ho appena passato due ore su Gemini 3. Non torno indietro. Il salto è folle, sembra che il mondo sia cambiato di nuovo.”
Holy shit. I’ve used ChatGPT every day for 3 years. Just spent 2 hours on Gemini 3. I’m not going back. The leap is insane — reasoning, speed, images, video… everything is sharper and faster. It feels like the world just changed, again. ❤️ 🤖 https://t.co/HruXhc16Mq
Ma qual è il vero vantaggio di Google? La risposta sta nell’approccio “full stack”, come viene definito.
Google ha addestrato Gemini 3 usando i propri chip personalizzati, le Tensor Processing Unit. Non ha dovuto dipendere dai costosissimi chip Nvidia che il resto dell’industria AI deve comprare, spesso con lunghe liste d’attesa.
Koray Kavukcuoglu, chief technology officer di DeepMind, lo spiega al Financial Times: “Essere in grado di connettersi con consumatori, clienti, aziende a quella scala è qualcosa che possiamo fare grazie all’approccio full stack integrato che abbiamo.“
E questo approccio include: chip proprietari, il motore di ricerca dominante al mondo, l’infrastruttura cloud di Google Cloud, gli smartphone Android, YouTube, Gmail. Un ecosistema completo dove integrare l’AI in miliardi di touchpoint già esistenti con gli utenti.
Il risultato? La capitalizzazione di mercato di Alphabet si sta avvicinando ai 4 trilioni di dollari per la prima volta.
Il sorpasso di Google su OpenAI a tre anni dal lancio di ChatGPT
La scommessa impossibile di OpenAI
E OpenAI? OpenAI è sotto pressione come mai prima.
Sam Altman, il CEO, ha inviato un memo interno allo staff già prima del lancio di Gemini 3. Il contenuto? “Dovremo restare concentrati attraverso la pressione competitiva a breve termine. Aspettatevi che le vibes là fuori siano difficili per un po’.” Il memo è stato riportato da The Information. E ora capiamo perché.
Sam Altman dichiara “code red”, cosa significa
Ma le “vibes difficili” sono diventate qualcosa di più concreto. Lunedì 2 dicembre 2025, appena tre giorni fa, Altman ha dichiarato uno stato di allerta interno. The Information riporta che il CEO ha inviato un nuovo memo ai dipendenti dichiarando “code red”: tutte le risorse devono concentrarsi sul miglioramento di ChatGPT di fronte alla crescente minaccia competitiva di Google e altri concorrenti AI.
Nel memo, Altman annuncia che altre iniziative, inclusa l’introduzione della pubblicità in ChatGPT, verranno ritardate per concentrarsi sul prodotto core.
L’ironia della situazione è evidente. L’analisi del codice della versione beta Android di ChatGPT (1.2025.329) mostra che il sistema pubblicitario è già pronto: ci sono riferimenti espliciti a “ads feature”, “search ad”, “search ads carousel” e “bazaar content”. OpenAI ha persino assunto oltre 600 ex dipendenti Meta, molti dei quali specializzati proprio in advertising.
La posizione di Altman sulla pubblicità è cambiata radicalmente nel tempo. Nel 2024 l’aveva definita “particolarmente inquietante” e una soluzione da “ultima spiaggia”. A giugno 2025 aveva ammorbidito il giudizio: “Non sono totalmente contrario. Penso che gli annunci su Instagram siano piuttosto interessanti.”
Ma proprio ora che tutto è tecnicamente pronto per lanciare gli ads, Altman dichiara “code red” e li rimanda. Ecco la pressione competitiva di Google, considerata come una minaccia che richiede di mettere in pausa tutto il resto, inclusa una fonte di ricavi già pronta.
Eppure il problema della monetizzazione resta urgente. OpenAI ha impegnato 1,4 trilioni di dollari nei prossimi otto anni per la potenza di calcolo. Ha stretto accordi enormi con Nvidia, Oracle, AMD, Broadcom. Un investimento che è ordini di grandezza superiore ai ricavi attuali dell’azienda.
Per finanziare questo progetto, i partner devono usare debito. Si tratta di una scommessa molto rischiosa per qualsiasi azienda.
OpenAI e gli ingenti investimenti
Ma il problema più grande è un altro. OpenAI deve trovare flussi di cassa sufficienti per sostenere quella scala di investimento. E al momento il modello di business non li garantisce.
Secondo le analisi finanziarie più recenti, OpenAI non ha una strada chiara verso la redditività fino al 2030 e necessiterebbe di oltre 207 miliardi di dollari aggiuntivi per sostenere i suoi sviluppi tecnologici.
L’azienda crede di poter attrarre centinaia di milioni di abbonati paganti a ChatGPT nei prossimi anni. Ma il piano a breve termine per generare più ricavi passa attraverso la pubblicità, qualcosa che ora viene rimandato proprio per rispondere alla pressione competitiva.
Il punto è che questo li porta dritti in un mercato già saturo, dominato da Meta e Alphabet. ChatGPT non ha ancora scalfito il dominio di Google nel mercato pubblicitario. E sta solo iniziando a integrare pubblicità e funzionalità di shopping nel chatbot.
Alcuni esperti dicono che OpenAI si è estesa troppo. Nell’ultimo anno hanno lanciato nuovi prodotti a ritmo frenetico: strumenti di programmazione automatizzata, l’app video Sora.
“OpenAI si sta disperdendo troppo,” dice un partner di un venture capital della Silicon Valley. “È impossibile per loro fare tutto bene.”
Anthropic, il terzo incomodo
E poi c’è Anthropic. Fondata nel 2021 da ex membri di OpenAI, sta raccogliendo un nuovo round di finanziamento che dovrebbe valutarla oltre 300 miliardi di dollari.
Claude, il chatbot di Anthropic, è rimasto nell’ombra rispetto al successo di massa di ChatGPT. Ma il focus storico di Anthropic sulla sicurezza dell’AI ha aiutato a creare uno strumento più affidabile per i clienti corporate, sostengono i suoi investitori. E i loro strumenti di coding sono considerati tra i migliori.
Anthropic vede il suo business in grande crescita in questo momento. Mentre OpenAI inseguiva i numeri assoluti di utenti consumer, Anthropic ha lavorato sul valore per cliente, sulla stabilità, sull’affidabilità.
La fase di maturazione della IA Generativa
Tre anni dopo il lancio di ChatGPT, il mercato dell’AI generativa sta uscendo da quella che era la fase pionieristica. Oggi non basta più essere stati i primi. Siamo nella fase di maturazione. Serve infrastruttura. Serve integrazione. Serve sostenibilità economica.
OpenAI adesso deve dimostrare che la sua scommessa da 1,4 trilioni ha senso economico, non solo tecnologico.
Come abbiamo visto, il tempo che le persone investono usando questi strumenti conta. L’engagement conta. E quel grafico di Similarweb lo racconta chiaramente: il sorpasso è già avvenuto.
Certo, concentrarsi sul coinvolgimento al momento è la strada quasi obbligata da seguire ma non è detto che sia quella giusta. L’esperienza delle piattaforme digitali è lì che ce lo dimostra chiaramente. Il rischio di snaturare perdendo di vista l’obiettivo è praticamente dietro l’angolo.
[L’immagine di copertina è stata realizzata da Franz Russo usando il modello di IA Generativa Gemini 3 – Nano Banana]
Dalla violenza online alla prevenzione clinica, la tecnologia offre strumenti concreti per proteggere le donne. La giornata contro la violenza sulle donne è l’occasione per conoscere chatbot e Intelligenza Artificiale che trasformano il digitale in alleato.
Quasi duemila casi sospetti di violenza sulle donne, rimasti invisibili ai registri ufficiali del sistema sanitario, sono stati identificati da un algoritmo. La verifica manuale su un campione ha confermato la correttezza delle predizioni nel 96% dei casi.
Non è fantascienza, è il progetto ViDeS (Violence Detection System) dell’Università di Torino, presentato proprio oggi, 25 novembre 2025, nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
La notizia, rilanciata da Euronews e Il Sole 24 Ore, rappresenta plasticamente il punto in cui ci troviamo. E cioè, la tecnologia, e in particolare l’intelligenza artificiale, dal ruolo di potenziale minaccia (deepfake, stalkerware, molestie online) passa anche a quello di alleato concreto nella prevenzione e nel contrasto della violenza di genere.
In pratica, la tecnologia e quindi anche la IA rivestono questo duplice ruolo di minaccia e alleato. E in questa giornata guardiamo insieme cosa davvero possono fare come alleati.
La violenza digitale comprende un ventaglio di comportamenti: diffusione non consensuale di immagini intime, cyberstalking, deepfake pornografici, discorsi d’odio, tracciamento delle attività tramite stalkerware.
Secondo le Nazioni Unite, il 95% degli abusi online avviene contro le donne, e nel 70% dei casi chi subisce violenza digitale subisce anche violenza fisica o sessuale dal partner.
Ma il costo umano, naturalmente, resta incalcolabile.
Violenza sulle donne: tecnologia e IA, i nuovi alleati
L’AI che “legge” i referti: il caso italiano ViDeS e PAUSE
Parlando di Intelligenza Artificiale in una giornata come questa, è il caso di segnalare progetti che nascono come valido aiuto per contrastare il fenomeno della violenza contro le donne.
Il sistema analizza automaticamente i referti del pronto soccorso per identificare lesioni di probabile origine violenta, anche quando l’anamnesi non lo dichiara esplicitamente.
Il modello è stato addestrato su circa 350-390mila referti dell’ospedale Mauriziano relativi al periodo 2015-2024. Il risultato? Un’accuratezza del 96-98% nell’identificare casi sospetti. Mentre nei registri ufficiali l’ospedale aveva annotato solo 900 casi di violenza, l’algoritmo ne ha segnalati quasi 2.000.
Il progetto si integra con PAUSE (Prevention of Assault Under Scientific Evidence), che aggiunge una dimensione dinamica. Infatti, non si limita a leggere un singolo referto, ma ricostruisce la cronologia degli accessi e dei traumi, analizzando frequenza, tipologia e variabilità delle spiegazioni fornite. Lo scopo è distinguere la fisiologia clinica dai segnali precoci di violenza domestica.
Come sottolinea Anna Maria Poggi, presidente della Fondazione CRT: “La tecnologia, quando è guidata da responsabilità e da una visione etica, può diventare un alleato prezioso nella tutela delle persone più vulnerabili.”
Chatbot e app: l’aiuto silenzioso che non lascia tracce
Se l’AI applicata ai dati sanitari lavora sulla prevenzione “a monte”, esiste un altro fronte: quello del supporto diretto alle donne in difficoltà.
E qui il digitale ha sviluppato strumenti che rispondono a un’esigenza concreta. Ossia quella di poter chiedere aiuto in silenzio, senza telefonate che possano essere intercettate dal maltrattante.
#NonPossoParlare
Sviluppato dall’Associazione Save the Woman in collaborazione con SPX Lab, Dotvocal e diversi centri antiviolenza liguri, #NonPossoParlare è un chatbot pensato per le donne che vivono con un maltrattante.
Funziona su smartphone, tablet o computer, simula una conversazione naturale con un operatore di centro antiviolenza, ed è disponibile 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Soprattutto, non lascia tracce sul dispositivo.
Il sistema è stato sviluppato grazie all’esperienza diretta delle operatrici dei centri antiviolenza, che hanno “istruito” l’intelligenza artificiale sulle domande più frequenti delle donne che chiedono aiuto. La Città di Alessandria è stata il primo capoluogo di provincia in Italia ad adottarlo.
Durante il lockdown del 2020, i contatti via chat sono triplicati, passando da 829 a oltre 3.300 messaggi. Nel primo trimestre 2025 sono arrivate oltre 14.000 chiamate, ma il dato da tenere in considerazione è che il 75% delle vittime non ha poi sporto denuncia per paura delle reazioni dell’aggressore.
Come spiega Arianna Gentili, responsabile 1522 di Differenza Donna: “Una chat che non devo scaricare e che posso aprire e chiudere senza lasciare traccia va oltre la paura di essere rintracciate. L’anonimato aiuta a scardinare il pregiudizio che andare in un centro antiviolenza equivalga a sporgere denuncia.”
Mama Chat e YouPol
Mama Chat è il primo sportello europeo ad offrire assistenza psicologica online tramite chat gratuita e anonima, con psicologhe volontarie pronte all’ascolto.
YouPol, l’app della Polizia di Stato nata nel 2017 per contrastare bullismo e spaccio, ha aggiunto durante la pandemia la possibilità di segnalare violenza domestica.
Il caso spagnolo VioGén: 17 anni di valutazione del rischio
Il sistema valuta il grado di rischio delle donne che hanno denunciato violenza domestica, assegnando un punteggio che va da “trascurabile” a “estremo” e determinando l’intensità degli interventi di protezione.
Secondo le autorità spagnole, VioGén ha contribuito a una riduzione del 25% delle aggressioni.
Ma non è infallibile: un’inchiesta del New York Times ha riportato che su 98 casi di omicidio successivi a violenza domestica, 55 vittime erano state valutate come a rischio trascurabile o basso. Occorre quindi ricordare, ancora una volta, che l’AI può supportare il lavoro umano, ma non sostituirlo del tutto.
Il fronte della violenza digitale: deepfake, revenge porn e la risposta tecnologica
Se la tecnologia può essere alleata, può essere anche arma. I deepfake pornografici, le immagini manipolate con AI, i siti di “nudify” che spogliano virtualmente qualsiasi donna a partire da una foto. Sono fenomeni in crescita esponenziale che colpiscono soprattutto donne e ragazze e di recente ne sono stati scoperti diversi.
In Italia, la legge 132/2025 sull’intelligenza artificiale, in vigore dal 10 ottobre, ha introdotto il reato di diffusione illecita di contenuti generati o alterati con sistemi di AI (art. 612-quater del Codice penale).
PermessoNegato: 3,5 milioni di contenuti rimossi dal 2019
L’associazione PermessoNegato, nata nel 2019, è diventata una delle principali realtà europee nel contrasto alla diffusione non consensuale di materiale intimo.
L’associazione ad oggi ha gestito oltre 5.000 casi, di cui 2.500 solo nell’ultimo anno, per un totale di 3,5 milioni di contenuti rimossi dal web. PermessoNegato offre supporto tecnologico gratuito per l’identificazione, la segnalazione e la rimozione dei contenuti dalle piattaforme online.
La comunicazione che ribalta la narrativa: Una Nessuna Centomila e l’AI “buona”
La Fondazione Una Nessuna Centomila ha lanciato per il 2025 la campagna “La violenza virtuale è reale“, che usa per la prima volta l’intelligenza artificiale in modo creativo: una donna generata dall’AI per mostrare che “Questa donna non esiste, ma la violenza che subisce sì”.
È un ribaltamento intelligente. In un momento in cui l’AI viene usata per creare deepfake e sessualizzare le donne senza consenso, la campagna trasforma la stessa tecnologia in uno strumento di denuncia.
La campagna mira a veicolare il messaggio che se si può inventare, manipolare e sessualizzare un’immagine con un click, allora è necessario prendersi cura del linguaggio e degli sguardi, non dei corpi.
Oltre i confini: dall’Africa agli Stati Uniti
Il fenomeno è globale e le risposte si moltiplicano.
In Sudafrica, dove il tasso di femminicidi è cinque volte superiore alla media mondiale, l’imprenditrice Leonora Tima ha sviluppato Grit (Gender Rights in Tech), una delle prime app gratuite basate sull’AI per affrontare la violenza di genere, creata interamente da sviluppatori africani. Include un pulsante d’emergenza, una cassaforte digitale per conservare prove, e un chatbot chiamato Zuzi che offre ascolto e orientamento ai servizi.
Negli Stati Uniti, il Take It Down Act firmato nel maggio 2025 impone alle piattaforme online di rimuovere entro 48 ore immagini intime non consensuali, incluse quelle generate dall’AI.
In Europa, la Direttiva 2024/1385 introduce un quadro giuridico comune contro la violenza sulle donne, mentre il Digital Service Act impone obblighi più stringenti alle piattaforme sulla rimozione di contenuti illegali.
I numeri italiani: uno scenario che non migliora
Mentre la tecnologia avanza, i numeri della violenza in Italia restano drammatici.
Secondo l’Osservatorio di Non Una di Meno, al 22 novembre 2025 sono stati registrati 77 femminicidi nel 2025. L’Istat ricorda che circa 6,4 milioni di donne italiane tra i 16 e i 75 anni (il 31,9% della popolazione femminile in quella fascia d’età) ha subito almeno una violenza fisica o sessuale nella vita.
Gli autori della violenza sono italiani in 3 casi su 4, il 47,8% ha un lavoro stabile, e nella quasi totalità dei casi sono partner, ex partner o familiari.
Nel 2024 sono attive 60 case rifugio, in calo rispetto al 2023 a causa dell’instabilità dei finanziamenti.
Oltre la tecnologia, serve un cambiamento culturale
La tecnologia, da sola, non basta. Lo dicono tutti gli esperti che sono stati interpellati: l’AI può supportare, ma non sostituire la relazione di cura.
Può identificare pattern, segnalare rischi, rimuovere contenuti dannosi, offrire un primo ascolto anonimo. Ma la violenza di genere resta “un problema strutturale nella nostra società“, come ricorda Giulia Minoli, presidente di Una Nessuna Centomila, “ed è necessario avere un approccio sistemico e costruire un’alleanza con tutti i mondi possibili“.
La psicoterapeuta Gloriana Rangone, commentando il fenomeno dei deepfake, lo dice con chiarezza: “La tecnologia amplifica ciò che già esiste. Se una cultura è violenta, sessista, intrisa di disuguaglianza, l’IA non fa che renderla più visibile e più potente. La responsabilità resta nostra: di come educhiamo, di quali modelli di relazione trasmettiamo, di come trattiamo il corpo e il consenso.”
In questo 25 novembre 2025, la sfida è doppia. Usare ogni strumento tecnologico disponibile per proteggere le donne, e al tempo stesso lavorare su quel cambiamento culturale profondo senza il quale nessun algoritmo potrà mai essere sufficiente.
La tecnologia può riconoscere i segnali d’allarme quando c’è ancora tempo per intervenire. Ma spetta a noi decidere in che direzione vogliamo andare.
Risorse utili
1522 – Numero antiviolenza e antistalking (attivo 24/7, anche via chat e app)
PermessoNegato.it – Supporto gratuito per vittime di revenge porn e violenza online
Il debutto di “Info sul tuo account” su X, pensato per rendere più trasparenti i profili, ha prodotto confusione, errori, localizzazioni imprecise. Si è quindi riacceso il dibattito sul ruolo della piattaforma nella lotta alla disinformazione. Ecco tutto quello che è successo.
Quello che doveva essere un passo avanti verso la trasparenza e verso la lotta alla disinformazione, si è rivelato un mezzo pasticcio.
Annunciata da settimane, alla fine X ha lanciato il fine settimana appena trascorso la funzione “Info sul tuo account”. Immediatamente dopo si è innescata una serie di situazione che dimostrano quanto sia complesso portare trasparenza in un ambiente dove l’autenticità è merce sempre più rara.
Nel giro di 48 ore dalla sua attivazione, la funzione è stata temporaneamente disattivata, poi riattivata con modifiche sostanziali, mentre migliaia di utenti si sono ritrovati a scoprire che account con centinaia di migliaia di follower, che si presentavano come “patrioti americani”, erano in realtà gestiti da Paesi lontani migliaia di chilometri dagli Stati Uniti.
Il caso più eclatante ha coinvolto addirittura l’account del Dipartimento di Sicurezza Nazionale statunitense, con screenshot diventati virali che lo mostravano come “basato in Israele” prima che la funzione sparisse improvvisamente nella notte di venerdì scorso, 22 novembre 2025.
X, la trasparenza e il pasticcio sulle info dei profili
Come si è arrivati a Info sul tuo account
Come dicevo all’inizio, la funzionalità era arrivata già il 14 ottobre 2025, quando Nikita Bier, responsabile prodotto di X dal luglio di quell’anno, aveva anticipato l’intenzione della piattaforma di apportare una maggiore trasparenza sui profili. Intento assolutamente lodevole.
La fase di test era partita sugli account dei dipendenti X, con l’obiettivo dichiarato di aiutare gli utenti a verificare l’autenticità dei contenuti che visualizzano quotidianamente e limitare l’influenza delle cosiddette “troll farm”.
La funzione, accessibile toccando la data di iscrizione visibile sui profili, mostra una serie di informazioni fino a quel momento nascoste: il Paese o la regione da cui l’account viene utilizzato prevalentemente; la data di creazione dell’account; il numero di volte in cui è stato cambiato il nome utente con l’indicazione dell’ultimo cambio; e la modalità attraverso cui l’app è stata scaricata originariamente (App Store statunitense, Google Play, web e così via).
Il meccanismo tecnico si basa sull’analisi degli indirizzi IP aggregati e sui dati dello store da cui è stata scaricata l’applicazione. X ha anche predisposto un sistema di avvisi per segnalare quando vengono rilevate connessioni attraverso proxy o VPN, mostrando un’icona a scudo con la dicitura che il Paese o la regione potrebbero non essere accurati.
Come si sa, gli utenti hanno la possibilità di modificare le impostazioni sulla privacy, scegliendo se mostrare il Paese specifico o solo la macro-regione geografica (Europa, Asia, Africa).
Questa opzione, inizialmente pensata per tutelare utenti in Stati dove la libertà di espressione è limitata, è stata poi estesa a tutti gli utenti. In ogni caso, come precisato da Bier, l’attivazione dei controlli sulla privacy viene evidenziata sul profilo stesso, creando un ulteriore livello di segnalazione che potrebbe alimentare sospetti.
Lancio globale e l’immediato caos
Quando la funzione è stata attivata a livello globale, sabato 22 novembre, si è scatenato un prevedibile parapiglia. Utenti di ogni orientamento politico hanno iniziato a verificare la posizione geografica di account con cui interagivano da anni, scoprendo incongruenze spesso clamorose.
I dati emersi nelle prime ore di utilizzo hanno mostrato situazioni e scenari sorprendenti.
L’account MAGANationX, con quasi 400.000 follower e che si presenta come “voce patriottica del popolo americano”, è risultato basato in Europa orientale al di fuori dell’Unione Europea.
IvankaNews_, account dedicato a Ivanka Trump con quasi un milione di follower, è apparso localizzato in Nigeria. Altri profili molto seguiti che promuovono contenuti pro-MAGA sono stati identificati in Bangladesh (account “America First” con 67.000 follower), Thailandia (Dark Maga con 15.000 follower), Marocco e Macedonia.
Ma il fenomeno non ha risparmiato neanche l’altro lato dello spettro politico. Un account che si presentava come “democratico orgoglioso” e “cacciatore professionale di MAGA”, con 52.000 follower, è stato localizzato in Kenya.
L’account “Republicans Against Trump”, con quasi un milione di follower, è risultato basato in Austria, anche se successivamente la localizzazione è cambiata in USA con l’avviso di possibile uso di VPN.
Il caso più eclatante, però, è stato quello dell’account del Dipartimento di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti. Venerdì mattina hanno iniziato a circolare screenshot e video che mostravano l’account come “basato a Tel Aviv, Israele”.
La funzionalità è stata disattivata bruscamente venerdì sera, alimentando dubbi sul fatto che X avesse ritirato lo strumento proprio per sopprimere la controversia legata all’account governativo.
Il DHS ha inizialmente risposto con un meme che mostrava Trump con espressione stupita, senza confermare né smentire, per poi pubblicare domenica una smentita ufficiale affermando che l’account è sempre stato gestito esclusivamente dagli Stati Uniti.
Nikita Bier ha respinto con forza le speculazioni, definendo le affermazioni “fake news” e spiegando che la funzione era stata temporaneamente disattivata “perché il Paese di creazione dell’account era inesatto per un sottoinsieme molto piccolo di account vecchi, a causa di intervalli IP cambiati nel tempo”.
Bier ha inoltre precisato che le informazioni sulla posizione non erano (e non lo saranno) disponibili per gli account verificati grigi (governativi e istituzionali), e che i post che mostravano il contrario erano stati etichettati come “media manipolati”.
Cinque ore dopo ha pubblicato un laconico “ho bisogno di un drink”, sintomo della pressione che si stava accumulando.
Quando la funzione è stata riattivata domenica mattina, X aveva già operato modifiche significative. L’informazione sul Paese di creazione originale dell’account era stata rimossa completamente, lasciando solo la posizione corrente basata, rispetto a quello che è stato diffuso inizialmente.
Gli account istituzionali con spunta grigia ora mostrano solo la data di creazione e quella di verifica, senza alcuna indicazione geografica, con l’eccezione dell’account DHS che è l’unico profilo governativo a mostrare “Stati Uniti” come posizione.
Le cause tecniche delle imprecisioni sono molteplici. L’uso di VPN o proxy può alterare la localizzazione rilevata. Gli indirizzi IP dinamici, i servizi di hotspot mobile e connessioni di tipo satellitare possono generare dati geografici errati.
Gli intervalli di indirizzi IP cambiano nel tempo, rendendo obsolete le informazioni di localizzazione storica per account creati anni fa. Viaggi internazionali e trasferimenti di residenza creano ulteriore complessità.
Appena attivata ho personalmente verificato diversi casi problematici. Il mio stesso account è stato segnalato come “probabilmente collegato via VPN” quando così non era e non è mai stato. Con il risultato di generare un’informazione completamente errata. Vero è che la mia posizione è in Italia.
Ma c’è di più. Profili che si dichiaravano italiani risultavano attivi stabilmente nel Sud-Est asiatico. E da ui si potrebbe creare una lista lunghissima di account.
Di fronte a questa funzionalità, molto valida nel suo intento, va assunto un atteggiamento attento. Proviamo ad immaginare due esempi.
Come approcciare alla funzionalità
Un account creato nel 2023, localizzato in India, con decine di cambi di username in pochi mesi e contenuti esclusivamente anti-Unione Europea presenta tutti i segnali di un’attività non autentica.
Invece, un profilo del 2011 con posizione sempre in Italia, verifica dal 2017 e attività coerente nel tempo lascia immaginare che sia un utente reale.
Bier ha riconosciuto che persistono alcune imperfezioni che dovrebbero essere risolte entro martedì 25 novembre, sottolineando che “se qualche dato è scorretto, verrà aggiornato periodicamente in base alle migliori informazioni disponibili” e che questo avviene “con una pianificazione ritardata e randomizzata per preservare la privacy”.
Le implicazioni politiche
Al di là degli aspetti tecnici, la funzione ha riacceso un dibattito, mai sopito in realtà, sull’effettiva portata dell’interferenza straniera nelle conversazioni politiche online.
Secondo le verifiche condotte da diversi analisti nelle prime ore di attivazione della funzione, decine di account con follower che vanno dalle decine di migliaia al milione sono risultati basati in Paesi diversi da quelli che i loro contenuti suggerivano.
Il Centre for Information Resilience aveva già segnalato durante le elezioni statunitensi del 2024 l’uso di account basati in Europa orientale o Russia per amplificare il movimento MAGA. La nuova funzione ha finito per rivelare informazioni alimentando ancora di più sospetti rispetto ad alcuni account.
Quando un utente ha chiesto a Grok, il chatbot di IA integrato in X, se il fenomeno riguardasse entrambi gli schieramenti politici, la risposta è stata: “I recenti aggiornamenti di X con le etichette dei Paesi hanno evidenziato diversi account pro-Trump/MAGA come basati all’estero, spesso in Russia. Le ricerche mostrano meno report di account democratici esposti in questo evento specifico, anche se operazioni di influenza straniera hanno storicamente preso di mira entrambi gli schieramenti politici“.
Recent X updates with country labels have highlighted several pro-Trump/MAGA accounts as foreign-based, often Russian. Searches show fewer reports of Democrat accounts exposed in this specific event, though foreign influence ops have targeted both political sides historically,…
La vicenda solleva questioni più profonde sulla natura stessa della trasparenza nelle piattaforme digitali. Uno strumento pensato per aumentare la fiducia ha finito per generare confusione, alimentato teorie di complotto e potenzialmente danneggiato la reputazione di account segnalati erroneamente.
Il problema fondamentale è che la trasparenza imperfetta può diventare addirittura più dannosa della stessa opacità.
Quando un sistema di verifica presenta margini di errore così evidenti ma viene percepito come affidabile, le conseguenze possono essere gravi.
Un utente segnalato come “probabilmente collegato via VPN” quando non lo è subisce un danno reputazionale ingiustificato. Un giornalista che lavora legittimamente dall’estero rischia di essere etichettato come troll. Un account governativo erroneamente localizzato in un altro Paese innesca enormi dubbi infondati.
La dinamica ricorda altri tentativi di introdurre meccanismi di verifica su larga scala che si sono rivelati problematici.
Le etichette automatiche di Facebook sui contenuti legati al cambiamento climatico hanno generato falsi positivi su articoli scientifici. I sistemi di moderazione automatica di YouTube hanno ripetutamente colpito contenuti legittimi mentre lasciavano passare violazioni evidenti. La differenza è che in questo caso la classificazione geografica tocca direttamente la sfera dell’identità e dell’opinione politica.
C’è poi il rischio di abuso dello strumento stesso. Utenti malintenzionati hanno iniziato a utilizzare la funzione per campagne di delegittimazione mirata, pubblicando screenshot di localizzazioni geografiche per screditare avversari politici. Tutto questo senza verificare se i dati fossero accurati o se ci fossero spiegazioni legittime (come persone che lavorano temporaneamente all’estero o che hanno creato account durante viaggi).
La possibilità di modificare le impostazioni per mostrare solo la regione invece del Paese specifico introduce un ulteriore livello di ambiguità. Se un utente sceglie di mostrare “Asia” invece di un Paese specifico, questo viene evidenziato sul profilo, creando di fatto un segnale che può essere interpretato negativamente anche quando la scelta è legittima per ragioni di sicurezza personale.
Quale trasparenza è possibile nelle piattaforme digitali?
La risposta che emerge da questa vicenda è che la trasparenza non è un interruttore che si può semplicemente attivare. Ma è un sistema complesso che richiede precisione tecnica, capacità di comprensione e interpretazione del contesto e meccanismi di correzione.
Uno strumento di trasparenza difettoso non è solo inutile: è controproducente perché erode ulteriormente la fiducia che pretende di costruire.
X non è la prima piattaforma a offrire informazioni “su questo account”. Instagram ha una funzionalità simile da tempo, che mostra quando un profilo è stato creato e i pattern di crescita dei follower. Ma Instagram si limita a dati meno controversi e più facilmente verificabili.
La scelta di X di includere informazioni geografiche basate su dati IP, notoriamente imprecisi, rappresentava un rischio calcolato che si è rivelato del tutto sottovalutato.
Il contesto normativo europeo aggiunge un ulteriore livello di complessità. Il Digital Services Act richiede alle piattaforme di grande dimensione di aumentare la trasparenza sui contenuti e di dare agli utenti strumenti per valutare l’affidabilità delle informazioni.
La vicenda si inserisce anche nella più ampia strategia di Elon Musk di trasformare X in un'”app per tutto” dove la fiducia è fondamentale. Come sottolineato da Bier, l’obiettivo è che durante eventi come elezioni o crisi internazionali, conoscere da dove proviene un account possa fornire un contesto preciso, simile alla firma che accompagna gli articoli nel giornalismo tradizionale. Ma il paragone regge solo se le informazioni sono accurate quanto quelle di una testata giornalistica verificata.
X, la trasparenza e il pasticcio sulle info dei profili
Cosa si impara da un esempio di trasparenza imperfetta
Cosa ci dice questa vicenda sul futuro della verifica dell’autenticità online
Innanzitutto, che non esistono soluzioni semplici a problemi complessi. L’identificazione di bot e account inautentici richiedono l’analisi di molteplici segnali comportamentali, non solo della posizione geografica. La frequenza dei post, i pattern di interazione, la coerenza temporale del linguaggio, le reti di connessioni sono tutti elementi che, combinati, possono fornire un quadro più affidabile.
In secondo luogo, che la trasparenza deve essere accompagnata da meccanismi capaci di contestualizzare e correggere in tempo reale.
X ha dimostrato di poter reagire rapidamente disattivando e modificando la funzione, ma questo ha anche alimentato la percezione di censura e manipolazione.
Un sistema più maturo avrebbe dovuto prevedere fin dall’inizio la possibilità per gli utenti di segnalare errori e di fornire spiegazioni contestuali verificabili.
Terzo, che gli effetti collaterali della trasparenza imperfetta possono essere significativi. La funzione ha generato ondate di campagne di delegittimazione reciproca, ha esposto potenzialmente utenti a rischi e ha alimentato narrazioni cospirazioniste molto difficili da smentire una volta diffuse.
Per ora, “Info sul tuo account” rimane quello che dovrebbe essere esplicitamente dichiarato: un indicatore, non una prova. Un primo tentativo di dare contesto, non una certificazione di autenticità.
Una indicazione da mettere insieme ad altri elementi di valutazione, non una sentenza definitiva. Se gli utenti lo useranno con questa consapevolezza critica, allora potrebbe essere utile.
Se invece verrà trattato come verità assoluta, paradossalmente potrebbe alimentare più confusione di quanta ne risolva. E questa, forse, è la lezione più importante di questo caotico weekend digitale.
[Le immagini originali sono state realizzare usando modelli di IA Artificiale Generativa, come Dall-E 3, Canva Magic Media, Gemini 3]
Il down di Cloudflare ha bloccato gran parte del web, evidenziando ancora una volta la fragilità dell’infrastruttura digitale nell’era dell’intelligenza artificiale e della sua crescente pressione.
Nuovi messaggi di errore 500, pagine bianche e servizi inaccessibili. Non si trattava di un problema locale o di singole piattaforme in difficoltà. Il problema, stavolta, era causato da Cloudflare, l’infrastruttura invisibile che gestisce circa il 20% di tutto il traffico internet mondiale.
Quando in Italia erano circa le 12:20, un’ondata di down ha colpito nello stesso momento X, ChatGPT, Canva, Discord, League of Legends, PayPal, Spotify e centinaia di altri servizi. Per oltre un’ora, una porzione significativa del web è rimasta paralizzata, in quello che si configura come uno dei blackout più estesi degli ultimi mesi.
Un incidente che arriva a meno di un mese dal down di Amazon Web Services del 20 ottobre, e che solleva nuovamente interrogativi urgenti sulla fragilità dell’infrastruttura digitale nell’era dell’intelligenza artificiale.
Cronaca di un blackout annunciato
La prima segnalazione ufficiale è arrivata alle 11:48 UTC sulla pagina Cloudflare Status: “Cloudflare è consapevole di un problema che potrebbe impattare diversi clienti e sta indagando”. Una comunicazione vaga che nascondeva la portata reale del disastro.
Nel giro di pochi minuti, le segnalazioni su Downdetector sono schizzate a oltre 12.000 per la sola piattaforma X. E a quel punto, anche Downdetector stesso, il servizio che monitora i disservizi online, era irraggiungibile perché si appoggia all’infrastruttura Cloudflare.
Gli utenti che cercavano conferme sul blackout si ritrovavano davanti a una schermata bianca con un messaggio surreale. Rendendo quindi impossibile verificare se internet funzionasse, perché il sistema di verifica stesso era offline.
I problemi tecnici erano i soliti ed evidenti, come errori 500 (Internal Server Error) diffusi, loop infiniti nei controlli di sicurezza che verificano se l’utente è umano, dashboard di Cloudflare inaccessibile persino per gli amministratori di sistema che cercavano di capire cosa stesse accadendo.
Anche la stessa pagina di stato del servizio mostrava segni di malfunzionamento, con la formattazione CSS che si sgretolava lasciando solo testo grezzo.
Per comprendere l’ampiezza del blackout, basta guardare l’elenco dei servizi rimasti offline o gravemente rallentati.
Il down di Cloudflare e la fragilità crescente di Internet
Social media e comunicazione: X (ex Twitter) ha registrato picchi di 12.374 segnalazioni su Downdetector, con accessi intermittenti per oltre un’ora. Discord, utilizzato da milioni di gamer e community online, è rimasto inaccessibile.
Intelligenza artificiale e produttività: ChatGPT di OpenAI ha mostrato il messaggio “please unblock challenges.cloudflare.com to proceed”, impedendo l’accesso al chatbot più utilizzato al mondo. Anche Sora, l’applicazione per video brevi di OpenAI, è rimasta offline.
La pagina di stato di OpenAI ha confermato: “un problema con uno dei nostri fornitori di servizi di terze parti”. Canva, la piattaforma di design utilizzata da milioni di professionisti, era completamente irraggiungibile. Persino Claude AI ha sofferto di un’interruzione importante.
Gaming e intrattenimento: League of Legends ha registrato problemi di connessione diffusi. I siti di modelli 3D per la stampa come Printables e Thangs mostravano errori HTTP 500. Letterboxd, il social network per cinefili, era offline.
Finanza e crypto: Coinbase, la principale piattaforma di trading crypto, ha subito interruzioni. BitMEX ha confermato un’interruzione legata ai problemi Cloudflare. Arbiscan, il block explorer di Arbitrum, era inaccessibile. DefiLlama, piattaforma fondamentale per i dati DeFi, mostrava errori intermittenti. PayPal e le app di pagamento hanno registrato problemi.
Servizi quotidiani: Uber e Uber Eats hanno mostrato difficoltà intermittenti con pagamenti e ordini. Persino i chioschi McDonald’s per gli ordini hanno smesso di funzionare in diverse località, come segnalato su Reddit. Spotify ha registrato problemi separati ma contemporanei.
Infrastruttura Web: Siti di informazione, portali aziendali, piattaforme e-commerce. Hardware Upgrade, tra i principali siti tech italiani, era irraggiungibile. The Register, Notebookcheck e Videocardz mostravano errori 500.
Cos’è Cloudflare e perché un suo problema blocca internet
Per comprendere la portata di questo ennesimo down, serve capire cosa fa realmente Cloudflare e perché la sua posizione nel web moderno è così cruciale.
Questo sistema offre vantaggi enormi. Cloudflare distribuisce i contenuti attraverso una Content Delivery Network (CDN) con server in oltre 200 città in più di 100 paesi, rendendo il caricamento delle pagine molto più veloce. Protegge i siti da attacchi DDoS (Distributed Denial of Service), filtrando il traffico malevolo prima che possa raggiungere i server reali. Gestisce in media 81 milioni di richieste HTTP al secondo, secondo i dati ufficiali dell’azienda.
I numeri della concentrazione sono impressionanti. Secondo W3Techs, circa l’80,7% di tutti i siti web che utilizzano una CDN si appoggiano a Cloudflare. In termini di quota di mercato assoluta delle CDN, Cloudflare detiene il 39,24%, seguita da Amazon CloudFront con il 24,22%. Tra i top 10.000 siti più popolari al mondo, il 32,8% utilizza Cloudflare.
Nel 2024, l’azienda ha registrato ricavi per 1,3 miliardi di dollari, con una crescita del 32% anno su anno. Ha 4,1 milioni di clienti totali, di cui 119.206 paganti e 945 grandi aziende che generano ciascuna oltre 100.000 dollari di ricavi annui.
La struttura dei prezzi di Cloudflare spiega in parte questa diffusione: offre un piano gratuito generoso che ha permesso a milioni di piccoli siti di adottare la piattaforma senza costi iniziali. Una strategia che ha creato una dipendenza strutturale difficile da invertire.
Le cause: traffico anomalo e altri da verificare
Alle 13:09 UTC, Cloudflare ha pubblicato l’aggiornamento più significativo: “Il problema è stato identificato e una soluzione è in fase di implementazione”. Ma cosa era successo realmente?
Un portavoce dell’azienda ha dichiarato ai media: “Abbiamo rilevato un picco di traffico insolito verso uno dei servizi Cloudflare a partire dalle 11:20 UTC. Questo ha causato errori per parte del traffico che passa attraverso la rete Cloudflare. Non conosciamo ancora la causa del picco di traffico insolito”.
La comunicazione ufficiale parla di un “picco di traffico insolito” verso uno dei servizi Cloudflare, che ha innescato errori a cascata nel traffico che transitava attraverso la rete. L’azienda ha sottolineato di essere al lavoro per garantire che tutto il traffico venga servito senza errori, rimandando l’analisi delle cause dopo il ripristino del servizio.
Le ipotesi circolate nell’immediatezza hanno considerato diversi scenari. Cloudflare aveva programmato manutenzioni ordinarie in alcuni datacenter. In ogni caso, le manutenzioni programmate di solito prevedono il reindirizzamento del traffico verso altre località, rendendo improbabile che siano state la causa diretta.
Un attacco DDoS coordinato resta una possibilità, anche se Cloudflare è specializzata proprio nella mitigazione di questo tipo di minacce. Solo due mesi prima, l’azienda aveva bloccato un attacco DDoS record da 11,5 Tbps. L’ipotesi di un attacco sufficientemente sofisticato da superare le difese di Cloudflare potrebbe risultare inquietante riguardo alla sicurezza dell’infrastruttura globale.
Alan Woodward, esperto di cybersecurity dell’Università del Surrey, ha commentato: “Un servizio così grande raramente ha un singolo punto di fallimento”, sottolineando come sia improbabile che si tratti di un attacco coordinato ma evidenziando la complessità del sistema.
Un errore di configurazione interna, magari legato al DNS o ai sistemi di routing, è l’ipotesi più probabile secondo molti osservatori tecnici. Un errore di configurazione nei sistemi che traducono i nomi di dominio in indirizzi IP potrebbe spiegare l’effetto a cascata osservato.
Durante i tentativi di rimedio, Cloudflare ha dovuto disabilitare temporaneamente l’accesso WARP a Londra, il servizio simile a una VPN che instrada il traffico attraverso la rete dell’azienda. Una mossa drastica che indica la gravità dei problemi di routing riscontrati.
Il down di Cloudflare e la fragilità crescente di Internet
Il ripristino graduale e lo stato attuale
Circa due ore dopo l’inizio del blackout, Cloudflare ha annunciato progressi significativi: “Abbiamo apportato modifiche che hanno consentito il ripristino di Cloudflare Access e WARP. I livelli di errore per gli utenti di Access e WARP sono tornati ai livelli precedenti all’incidente. Abbiamo riattivato WARP Access a Londra. Stiamo continuando a lavorare per ripristinare altri servizi”.
Il ripristino è avvenuto in modo graduale e geograficamente disomogeneo. Nel Regno Unito, dove i problemi erano particolarmente acuti, il miglioramento è stato evidente da subito. Negli Stati Uniti, con la costa est che si svegliava proprio durante il picco del blackout, le segnalazioni hanno continuato ad aumentare fino alle prime ore del pomeriggio ora locale.
Alle 13:35 UTC, l’azienda ha confermato: “Stiamo continuando a lavorare per ripristinare il servizio per i clienti dei servizi applicativi”, indicando che alcuni servizi richiedevano ancora interventi specifici.
Le azioni Cloudflare hanno reagito immediatamente al blackout, perdendo oltre il 5% nelle contrattazioni pre-mercato, poi il calo si è ridotto al 3,5% con l’avanzare della giornata e il graduale ripristino dei servizi.
Nel pomeriggio italiano, la maggior parte dei servizi risultava nuovamente accessibile, anche se Cloudflare ha avvertito che “i clienti potrebbero continuare a osservare tassi di errore superiori alla norma mentre continuano gli sforzi di ripristino”. Una coda di problemi destinata a persistere mentre gli ingegneri completavano la stabilizzazione completa della rete.
Sfilza di down ora preoccupanti: da AWS a Cloudflare
Questo blackout non è un episodio isolato. Come dicevamo all’inizio, arriva a distanza di poche settimane dal down di Amazon Web Services del 20 ottobre 2025, che aveva paralizzato servizi come Perplexity, Canva, Snapchat, Roblox, Fortnite, Signal, Coinbase e Venmo. In quel caso, un problema DNS nella regione US-EAST-1 in Virginia aveva innescato un effetto domino globale.
Le analogie sono inquietanti. Entrambi gli incidenti hanno coinvolto problemi a livello di infrastruttura di base (DNS e routing), non attacchi esterni o errori applicativi.
Entrambi hanno colpito simultaneamente servizi apparentemente non correlati, rivelando quanto estesa sia la dipendenza da pochi provider. In entrambi i casi, anche i sistemi di monitoraggio degli outage (come Downdetector) sono finiti offline, creando un vuoto informativo paradossale.
La differenza principale riguarda il ruolo che svolgono nell’architettura di internet. AWS fornisce l’infrastruttura cloud sottostante (server, storage, database), mentre Cloudflare gestisce il layer di rete e sicurezza, quella parte posizionata davanti ai siti.
Ma alla fine, il risultato pratico è lo stesso: quando uno dei due giganti cade, una fetta enorme di internet diventa inaccessibile.
I numeri della concentrazione sono allarmanti. Nel cloud computing, come ricordato qui sul questo blog, AWS detiene circa il 30% del mercato globale IaaS, Microsoft Azure il 20% e Google Cloud il 13%. Insieme controllano oltre il 60% dell’infrastruttura cloud mondiale. Sul fronte delle CDN, Cloudflare domina con quasi l’80% dei siti che usano CDN appoggiate alla sua rete.
Questo significa che una manciata di aziende, letteralmente tre o quattro player, gestiscono l’infrastruttura critica di internet. E quando una di queste inciampa, gli effetti si propagano istantaneamente a livello globale.
Perché le interruzioni stanno diventando sempre più frequenti
La domanda che molti si stanno ponendo dopo questo ennesimo blackout è legittima: perché sembra che internet si stia rompendo così spesso? I dati confermano che non è solo una percezione.
In termini assoluti, le interruzioni legate alle applicazioni sono aumentate dell’8% nei primi cinque mesi del 2024 rispetto allo stesso periodo del 2023. Ma è la natura di queste interruzioni a raccontare la storia più inquietante: la maggior parte dei blackout maggiori del 2024 è stata causata da errori di configurazione backend o dal fallimento di sistemi automatizzati, non da attacchi esterni o guasti hardware.
Le cause di questa tendenza sono molteplici e interconnesse.
L’esplosione della domanda legata all’IA
Il 2024-2025 rappresenta il momento di massima pressione infrastrutturale mai visto. La spesa per l’infrastruttura cloud è cresciuta del 99,3% anno su anno nel quarto trimestre del 2024, raggiungendo 67 miliardi di dollari. Ma non è crescita ordinaria: è trainata dall’intelligenza artificiale.
La domanda di infrastruttura AI sta crescendo a ritmi tre volte superiori rispetto ai carichi di lavoro tradizionali. Il mercato dell’infrastruttura IA è passato da 26,18 miliardi di dollari nel 2024 a proiezioni di 221,4 miliardi entro il 2034, con una crescita del 23,8% annuo. Microsoft ha annunciato investimenti per 80 miliardi di dollari in CapEx per il 2025, Alphabet 75 miliardi, Amazon 100 miliardi. Tutti concentrati su datacenter AI, chip personalizzati e piattaforme di training.
I carichi computazionali sono aumentati in modo esponenziale. I datacenter che prima gestivano 8-10 kW di potenza ora devono sostenere 17 kW, con picchi fino a 100 kW per i deployment AI più avanzati. Questo richiede sistemi di raffreddamento a immersione liquida e infrastrutture elettriche completamente riprogettate.
Secondo Gartner, entro il 2027 il 40% dei datacenter AI subirà limitazioni operative a causa di carenze energetiche. I datacenter negli Stati Uniti hanno consumato il 4,4% dell’elettricità totale nel 2023, con proiezioni che arrivano al 12% entro il 2028. Il fabbisogno di raffreddamento potrebbe raggiungere 275 miliardi di litri d’acqua all’anno.
La corsa alla scalabilità sacrifica la resilienza
La pressione competitiva per rilasciare nuove funzionalità AI, lanciare nuovi servizi, espandere la capacità, è intensa. I cicli di rilascio si accorciano. L’automazione aumenta. Ma l’automazione introduce nuovi punti di fallimento.
CrowdStrike nel luglio 2024 ha mandato offline 8,5 milioni di dispositivi Windows con un aggiornamento difettoso del Falcon Sensor. Microsoft a novembre 2024 ha causato interruzioni a Outlook per un “cambio di configurazione” che ha generato un’ondata di retry request. Cloudflare nell’aprile 2024 aveva già avuto un blackout causato da un deployment di un nuovo servizio di telemetria che aveva sovraccaricato il control plane di Kubernetes.
Insomma, sistemi sempre più complessi, modifiche sempre più frequenti, testing sempre meno esaustivo rispetto alla scala reale di deployment. Il risultato sono incidenti che solo pochi anni fa sarebbero stati impensabili.
L’invecchiamento dell’architettura sotto stress dell’IA
Molte delle infrastrutture cloud e CDN sono state progettate in un’era pre-AI generativa. I pattern di traffico dell’AI sono diversi: burst intensi di richieste, carichi di inferenza che richiedono bassa latenza, training distribuito che genera traffico inter-datacenter massiccio.
Adattare architetture esistenti a questi nuovi pattern senza riprogettarle da zero crea stress points. I sistemi di routing, i load balancer, le configurazioni di rete sono ottimizzati per carichi tradizionali. Quando l’AI genera “picchi di traffico insolito” come quelli che hanno colpito Cloudflare, i sistemi faticano a gestirli senza degradazione o failure.
La concentrazione amplifica ogni singolo errore
Con il 20% di internet che transita attraverso Cloudflare, con AWS che gestisce il 30% del cloud, con tre hyperscaler che controllano oltre il 60% dell’infrastruttura globale, ogni singolo punto di fallimento diventa un blackout globale.
Se dieci anni fa un errore di configurazione avrebbe impattato qualche migliaio di siti, oggi lo stesso errore può mandare offline milioni di servizi simultaneamente. La scala amplifica l’impatto di ogni problema tecnico in modo non lineare.
E non ci sono segnali che questa tendenza si inverta. Anzi. Con l’AI che continua a crescere, con i carichi che aumentano, con la pressione competitiva che spinge verso deployment sempre più aggressivi, è ragionevole aspettarsi che le interruzioni non solo continueranno, ma potrebbero diventare più frequenti e più gravi.
Questo è il prezzo nascosto dell’infrastruttura centralizzata nell’era dell’intelligenza artificiale. Non è sostenibile tecnicamente, non è sostenibile energeticamente, e come stiamo vedendo con sempre maggiore evidenza, non è sostenibile operativamente.
Le conseguenze economiche e reputazionali
Quantificare il costo esatto di un blackout come quello di Cloudflare, ma alcuni dati aiutano a comprendere l’ordine di grandezza.
Durante il down di AWS di ottobre, le stime hanno calcolato perdite superiori a 75 milioni di dollari all’ora considerando solo i principali servizi impattati. Amazon stessa perde circa 220.000 dollari al minuto quando il suo e-commerce è offline. Applicando parametri simili a Cloudflare, con milioni di siti e servizi offline per oltre due ore, si parla di centinaia di milioni di dollari in perdite aggregate.
I costi diretti includono transazioni e-commerce non completate, abbonamenti SaaS non accessibili, pubblicità non visualizzate, sessioni di gaming interrotte con relativi acquisti in-app saltati. I costi indiretti sono ancora più significativi: interruzioni dei processi aziendali, perdita di produttività, necessità di supporto clienti straordinario, impatto sulle SLA (Service Level Agreement) con i clienti business.
Poi c’è la dimensione reputazionale. Per le aziende che dipendono da Cloudflare, ogni minuto di downtime erode la fiducia degli utenti. Per Cloudflare stessa, un incidente di questa portata solleva domande sulla resilienza dell’infrastruttura proprio mentre l’azienda cerca di espandersi nei servizi enterprise e nell’AI.
L’intelligenza artificiale generativa sta amplificando una forte pressione infrastrutturale. I modelli di IA richiedono elaborazione intensiva, storage massiccio, bassa latenza per applicazioni real-time. Cloudflare gestisce già milioni di richieste per applicazioni AI attraverso i suoi Worker. AWS, Azure e Google Cloud ospitano i principali modelli foundation del settore.
Quando l’infrastruttura che supporta l’IA si blocca, non si fermano solo chatbot e generatori di immagini. Si interrompono sistemi di rilevamento frodi, assistenti virtuali per customer service, sistemi di raccomandazione, automazioni aziendali. La dipendenza diventa sempre più profonda e pervasiva.
Cosa possono fare le aziende (e gli utenti)
Nell’attesa di eventuali framework regolatori, cosa possono fare concretamente le organizzazioni che dipendono da questi servizi?
La prima risposta è diversificazione. Progettare sistemi che possano funzionare con provider alternativi, anche a costo di maggiore complessità. Utilizzare multi-CDN, distribuire applicazioni su cloud diversi, implementare fallback verso infrastrutture on-premise per funzioni critiche.
La seconda è monitoraggio proattivo. Non affidarsi solo ai sistemi di status dei provider, ma implementare controlli indipendenti. Avere registri dettagliati per scenari di disaster recovery che includano esplicitamente i blackout dei provider esterni.
La terza è trasparenza verso i propri utenti. Comunicare chiaramente le dipendenze infrastrutturali, avere piani di comunicazione pre-definiti per gli outage, gestire le aspettative realisticamente.
Per gli utenti finali, la consapevolezza è il primo passo. Comprendere che il web moderno, per quanto appaia solido, poggia su fondamenta più fragili di quanto sembri. Avere piani B per attività critiche: contatti alternativi per comunicazioni urgenti, backup locali di documenti importanti, metodi di pagamento diversificati.
In conclusione, questo nuovo blackout di Cloudflare si aggiunge a una serie di incidenti che stanno mappando i punti di fragilità dell’infrastruttura digitale globale. Dopo AWS a ottobre, dopo il down di CrowdStrike nel luglio 2024 che aveva paralizzato voli e ospedali, dopo le interruzioni di Microsoft Azure, tutto questo inizia ad essere preoccupante. Proprio in relazione a tutto quello che abbiamo visto fin qui.
La concentrazione in pochi hyperscaler ha senso dal punto di vista dell’efficienza e dei costi. Ma ha un prezzo nascosto in termini di resilienza sistemica che paghiamo collettivamente quando questi nodi critici falliscono.
Con 35 milioni di siti che dipendono da Cloudflare, con il 20% del web che transita attraverso la sua rete, con l’intelligenza artificiale che spinge la domanda di infrastruttura a livelli senza precedenti, la domanda non è se ci saranno altri blackout. È quando, e quanto saranno gravi.
La buona notizia è che questi incidenti raramente durano giorni. Il ripristino avviene in termini di ore, a volte, quando va bene, anche in minuti. Ma la cattiva notizia è che la fragilità resta. E in un’epoca in cui la dipendenza dal digitale diventa sempre più totale, ogni blackout è un piccolo collasso che ci ricorda quanto sia precario l’equilibrio su cui poggiamo.
Un guasto in Virginia può fermare il mondo, come abbiamo visto a ottobre. Un picco di traffico anomalo verso Cloudflare può rendere invisibile un quinto di internet, come abbiamo visto oggi. E la prossima volta? Non lo sappiamo. Ma sappiamo che ci sarà una prossima volta.
Perchè alla fine, abbiamo costruito un’infrastruttura digitale straordinariamente potente ed efficiente, ma abbiamo dimenticato di chiederci cosa succede quando si ferma. E continuiamo a scoprirlo sempre nel modo più doloroso possibile.
Dal 10 febbraio 2026 Facebook eliminerà i pulsanti “Mi piace” e “Commenti” dai siti web. Un cambiamento che segna la fine del web aperto e l’ascesa definitiva delle piattaforme chiuse.
Meta ha annunciato che dal 10 febbraio 2026 due dei suoi plugin social più iconici scompariranno dal web. Stiamo parlando dei pulsanti “Mi piace” e “Commenti”.
Una notizia che a molti potrebbe sembrare marginale, quasi una nota in fondo alla pagina nella storia dei social media. Eppure, dietro questo abbandono si nota un chiaro segnale di cambiamento. Quel tipo di cambiamento che sta attraversando le piattaforme social media di cui tutti noi stiamo osservando gli effetti.
Quando Facebook voleva essere ovunque
Per capire cosa sta accadendo, dobbiamo fare un passo indietro e arrivare al 2010. In quegli anni Facebook stava vivendo la sua età d’oro. Era nel pieno di una crescita esponenziale, miliardi di utenti attivi e l’ambizione di spingere la piattaforma oltre i suoi naturali confini.
L’Open Graph era un sistema di protocolli e strumenti per sviluppatori che permetteva ai siti web di integrarsi profondamente con Facebook. In pratica, trasformava ogni pagina web in un “oggetto sociale” che poteva essere condiviso, commentato e apprezzato esattamente come un post su Facebook. I siti diventavano estensioni del social network e Facebook diventava il tessuto connettivo del web.
Facebook addio ai “Mi piace” e “Commenti”: la fine di un’era
Cos’è l’Open Graph?
L’Open Graph è stato lanciato da Facebook nel 2010 come un set di strumenti che permetteva ai siti web di “parlare” con Facebook. Grazie a semplici righe di codice, ogni articolo, pagina o prodotto poteva diventare un contenuto social: gli utenti potevano mettere “Mi piace”, commentare o condividere direttamente dal sito esterno, e queste azioni comparivano nel loro profilo Facebook.
Era l’epoca in cui Facebook voleva essere il centro del web, non solo una destinazione tra tante.
I plugin “Mi piace” e “Commenti” rappresentavano l’incarnazione perfetta di questa visione. Permettevano agli utenti di interagire con contenuti esterni senza mai lasciare l’ecosistema Facebook. Un clic su quel bottoncino blu in fondo a un articolo, e l’azione veniva registrata, condivisa, amplificata attraverso il news feed. Per i publisher era una promessa allettante: traffico organico, engagement, visibilità gratuita.
E per un po’ ha funzionato. Blog, siti di news, portali di ogni tipo si sono riempiti di questi widget azzurri. Era il web sociale, aperto, interconnesso. O almeno così sembrava.
La motivazione: “un’era precedente dello sviluppo web”
Nel comunicato ufficiale, Meta spiega la decisione con toni asettici e professionali. I plugin, si legge, “riflettono un’era precedente dello sviluppo web” e “il loro utilizzo è naturalmente diminuito mentre il panorama digitale si è evoluto”.
Dal punto di vista tecnico, non ci saranno problemi. I plugin diventeranno semplicemente elementi invisibili (0x0 pixel si dice in gergo), senza causare errori o arrecare problemi ai siti.
Non serve alcuna azione da parte dei webmaster. I bottoncini scompariranno in silenzio, lasciando al massimo qualche riga di codice inutile da ripulire per chi vorrà e saprà farlo.
Ma la vera domanda è un’altra. Perché questo utilizzo è “naturalmente diminuito”? La risposta ci porta dritti al cambiamento a cui accennavo prima, che ha investito le piattaforme digitali negli ultimi anni.
Oggi il web che non esce più dalle piattaforme
La verità è che il modello delle piattaforme è cambiato radicalmente. Oggi gli utenti sono sempre più portati a non uscire più dalle piattaforme per andare sui siti web.
I contenuti si consumano direttamente dentro Facebook, Instagram, X, TikTok. Le piattaforme hanno costruito spazi enormi, ma chiusi. Dove tutto accade all’interno: video, articoli, conversazioni, acquisti.
Enormi perché ognuno di essi raccoglie un numero di utenti tale che potrebbe competere con la popolazione dei paesi più grande del pianeta. Suona come una contraddizione parlare delle piattaforme come “spazi chiusi”, ma è la realtà di oggi.
Il web “aperto”, quello degli anni 2010, dove i social media fungevano da ponte tra piattaforme e siti esterni, ha ceduto il passo a un modello in cui le piattaforme vogliono trattenere le persone dentro il proprio ecosistema.
Ogni clic verso l’esterno è un’opportunità persa. Ossia, meno tempo sulla piattaforma, meno dati raccolti, meno pubblicità visualizzata.
Non si tratta solo di una questione di numeri, ma di una strategia precisa. Meta, come le altre big tech, ha compreso che il vero valore sta nel catturare e trattenere l’attenzione. E l’attenzione non si trattiene abilitando l’uscita verso altri siti, ma costruendo un ambiente dove tutto ciò di cui hai bisogno è già disponibile.
Ecco chi ci perde
E quando quei tasti “Mi piace” e “Commenti” hanno smesso di funzionare realmente come generatori di traffico? Difficile dirlo con precisione, ma il declino è stato progressivo.
Gli algoritmi di Facebook hanno via via ridotto la visibilità dei contenuti esterni nel news feed. Le condivisioni organiche sono diventate sempre meno efficaci. I publisher hanno iniziato a notare che quei bottoncini blu generavano sempre meno clic, sempre meno engagement.
Eppure, per molti siti, soprattutto quelli di informazione e news che negli anni hanno costruito parte della loro strategia su Facebook, questa dismissione è comunque un campanello d’allarme. Anzi, forse più di un campanello d’allarme.
Non tanto per il traffico che effettivamente generano oggi questi plugin (probabilmente marginale), ma per ciò che rappresentano. Quindi la fine definitiva di un’era in cui i social media erano alleati dei publisher nel distribuire contenuti.
In sei anni, dal marzo 2018 al marzo 2024, il declino è stato del 58%, passando da 1,3 miliardi a 561 milioni di referral mensili. Come percentuale del traffico totale, Facebook è passato dal rappresentare il 30% nel 2018 al 7% nel 2024, per poi scendere ulteriormente al 4% nel novembre 2024 secondo dati Chartbeat riportati da Digiday.
Le piattaforme preferiscono che gli utenti leggano gli articoli direttamente all’interno dell’app, attraverso formati proprietari come Instant Articles o semplicemente attraverso anteprime sempre più ricche.
Calo traffico referral Facebook
Il contesto più ampio, la “tiktokizzazione” del web
L’abbandono dei pulsanti Facebook si inserisce in un fenomeno più ampio che potremmo chiamare la “tiktokizzazione” del web. TikTok ha dimostrato che è possibile costruire una piattaforma di successo dove gli utenti passano ore senza mai uscire dall’app, consumando un flusso infinito di contenuti verticali.
Instagram ha abbracciato questa visione con i Reels. YouTube con gli Shorts. Anche X (ex Twitter) sta spingendo sempre più verso contenuti video nativi. L’obiettivo è lo stesso: massimizzare il tempo trascorso all’interno della piattaforma.
E quasi tutte le piattaforme stanno via via demotivando il clic verso link esterni, prediligendo contenuti senza link.
In questo scenario, i plugin che facilitano l’uscita verso siti esterni diventano non solo inutili, ma addirittura controproducenti rispetto alla strategia di business. Meta sta semplicemente prendendo atto di una realtà che era già evidente da tempo.
Cosa rimane e cosa cambia
Non tutti i plugin sociali di Facebook stanno scomparendo. Il pulsante “Condividi”, quello con la “F” blu che si vede in fondo a molti articoli, continuerà a funzionare. Condividere un link su Facebook è un’azione che avviene dentro la piattaforma e genera engagement al suo interno. Il “Mi piace” esterno e i commenti esterni, invece, creavano interazioni che vivevano in parte fuori dal controllo di Meta.
Per i publisher e i proprietari di siti, specie quelli che avevano costruito tutta la strategia di distribuzione su Facebook si fa dura. Non è più tempo di aspettarsi che le piattaforme social portino traffico come succedeva un tempo.
Il modello è cambiato. Se si vuole raggiungere il pubblico dove si trova, bisogna ripensare l’intera strategia e cercare di essere presenti sulle piattaforme in maniera diversa.
Le piattaforme digitali sempre più chiuse
La fine dei “Mi piace” e “Commenti” di Facebook non è un evento isolato, ma il sintomo di una trasformazione strutturale del web. Stiamo passando da un modello distribuito e interconnesso a uno fatto di ecosistemi chiusi e verticalmente integrati.
Le piattaforme non ambiscono più a essere ponti verso altri siti, ma scelgono di diventare destinazioni finali.
Questa evoluzione pone domande importanti. Un web frammentato in spazi chiusi, sebbene enormi, è davvero nell’interesse degli utenti? La concentrazione del potere nelle mani di poche piattaforme che controllano l’accesso all’informazione è sostenibile a lungo termine? E i publisher, come possono sopravvivere in un ecosistema dove il traffico organico dai social è sempre più ridotto?
Non ci sono risposte semplici. Ma è certo che quando quei bottoncini blu scompariranno il 10 febbraio 2026, con loro se ne andrà definitivamente un pezzo della storia del web.
Un web che, per qualche anno, aveva creduto possibile essere allo stesso tempo sociale, aperto e interconnesso. Prima che le logiche di business e il controllo dell’attenzione prendessero il sopravvento.
[L’immagine di copertina è stata realizzata utilizzando il modello di IA generativa DALL-E 3]
L’elezione di Zohran Mamdani a sindaco di New York mostra una nuova leadership politica nata dentro l’ambiente digitale. Non il digitale come strumento, ma come nuove contesto culturale che esprime un nuova politica.
L’elezione di Zohran Mamdani a sindaco di New York è un caso straordinario, ma forse lo è soltanto per noi analogici, che abbiamo conosciuto la transizione verso il digitale. E forse la generazione di Mamdani vede tutto questo come più un passaggio naturale, un qualcosa che in realtà esiste già in un ambiente digitale.
Da giorni, ormai, si parla dell’elezione di Zohran Mamdani a sindaco di New York e di sua moglie, l’artista Rama Duwaji, che rappresentano un po’ una nuova leadership politica che di fatto sta catturando l’attenzione di analisti politici, di personalità politiche, di giornalisti, di tanti che sono interessati a questo fenomeno.
Stiamo parlando dell’elezione a sindaco nella più importante città americana, in una metropoli globale come New York, che affascina generazione dopo generazione di persone, e che di fatto è riuscita a scardinare una classe politica ormai radicata con un messaggio progressista, socialista, molto più attento alle persone.
Si parla molto, in questi giorni, di come Mamdani sia riuscito a utilizzare la comunicazione digitale, gli strumenti digitali, all’interno della sua campagna elettorale, fin da quando si è presentato nel novembre del 2024 fino alla sua elezione di qualche giorno fa.
L’elezione di Zohran Mamdani e la nuova leadership digitale
Dalla transizione al digitale all’ambiente digitale
C’è un aspetto su cui è necessario soffermarsi. Per noi analogici digitali, cioè per coloro che hanno conosciuto la transizione dall’analogico al digitale, il digitale è stato interpretato come uno strumento. Abbiamo dovuto imparare a viverlo e a utilizzarlo.
Qui, invece, siamo di fronte a una leadership nuova. Una leadership politica.
Zohran Mamdani e sua moglie Rama Duwaji sono nati in un contesto digitale. Non sono a tutti gli effetti catalogabili come nativi digitali per questione anagrafica, ma poco ci manca. Rama Duwaji è nata nel 1997, ha 28 anni, e Zohran Mamdani 34 anni, il sindaco più giovane della storia di New York, catalogabile come Millennial.
Questa generazione, che tanto è stata raccontata, oggi produce attraverso la propria cultura digitale una prima e vera leadership digitale di comunicazione.
Il digitale non come strumento, ma come ambiente
Per loro il digitale non è uno strumento, è un ambiente. Gli strumenti digitali utilizzati da Zohran Mamdani e Rama Duwaji non sono strumenti: sono dimensione reale. Sono l’ambiente all’interno del quale sono nati, e sicuramente cresciuti.
A differenza di tanti analogici, soprattutto politici, che si sorprendono di come Rama e Zohran siano riusciti a intercettare meglio le esigenze delle persone.
Zohran Mamdani non ha fatto altro che vivere questa dimensione digitale e trasformarla in una forma di relazione e contatto diretto con le persone. Prima ancora di trasformare, ha saputo ascoltare grazie agli strumenti digitali.
E non ha calato dall’alto una proposta politica, come spesso avviene, ma ha fatto in modo che l’idea politica nascesse all’interno dell’ambiente digitale, prendendo forma dall’ascolto.
Zohran Mamdani
Una nuova leadership politica espressione della cultura digitale
Non sorprende tanto l’uso degli strumenti digitali, quanto la capacità di intercettare esigenze che altrimenti non emergerebbero se la classe politica analogica continua ad approcciare il digitale come semplice mezzo di trasmissione.
Qui siamo di fronte a un’idea politica che nasce dentro l’ambiente digitale. All’interno di questo ambiente ci sono poi vari strumenti, mezzi e modalità che permettono di costruire insieme l’idea politica.
Zohran Mamdani aveva 13 anni quando è arrivato Facebook. Rama Duwaji ne aveva 7. Sono cresciuti dentro l’ambiente digitale. Non hanno conosciuto cosa c’era prima. Hanno costruito relazioni, acquisito cultura digitale e l’hanno trasformata in una visione politica e comunicativa più aperta e riconoscibile.
Ed ecco il motivo del successo di Zohran Mamdani e di Rama Duwaji, che ha trasformato la propria verve artistica all’interno di questo schema culturale digitale, traducendola in un messaggio politico aperto e condivisibile.
Siamo di fronte a una nuova leadership politica, che non si muove più verso il digitale come strumento, ma vive in un ambiente digitale. È importante osservare questo fenomeno, perché aiuta a comprendere come si stia trasformando il modo di costruire relazione, ascolto e politica.
Uno studio di Accenture su 1.928 organizzazioni rileva che il 62% delle aziende europee cerca soluzioni di IA sovrana. L’Italia si piazza seconda in Europa con il 71% pronta ad aumentare investimenti. I settori chiave: banking, energia, PA.
C’è un dato che più di ogni altro fotografa il momento che l’Europa sta vivendo con l’intelligenza artificiale: il 62% delle organizzazioni europee è attivamente alla ricerca di soluzioni sovrane.
In realtà, si tratta di una tendenza che non sorprende, se si considera l’attuale incertezza geopolitica. E se si considera la crescente consapevolezza che il controllo su dati e infrastrutture tecnologiche rappresenta oggi un asset strategico fondamentale.
Un nuovo studio di Accenture, condotto tra luglio e agosto 2025 su 1.928 organizzazioni in 28 Paesi e 18 settori, evidenzia come la sovranità nell’intelligenza artificiale stia rapidamente passando da concetto teorico a priorità concreta per le imprese europee.
E l’Italia si colloca ai primi posti di questa trasformazione.
Cosa significa IA sovrana e perché è importante
L’IA sovrana si riferisce alla capacità di un paese di sviluppare e implementare sistemi di intelligenza artificiale utilizzando infrastrutture, dati, modelli e talenti locali.
Non si tratta solo di un concetto tecnico, ma di un vero approccio strategico che consente di proteggere i dati da accessi esterni, rafforzare la competitività economica e ridurre la dipendenza da fornitori tecnologici non europei.
In un contesto geopolitico caratterizzato da crescenti tensioni commerciali e tecnologiche, questa autonomia assume un valore, appunto, fondamentale.
La sovranità digitale diventa la risposta europea a un paradosso sempre più evidente: come accelerare l’adozione dell’intelligenza artificiale per stimolare innovazione e crescita, senza dipendere eccessivamente da tecnologie provenienti da fuori regione.
L’Europa accelera sulla sovranità IA, Italia tra le protagoniste
I numeri della svolta e l’Italia protagonista
Dallo studio di Accenture emerge che, nei prossimi due anni, il 60% delle organizzazioni europee prevede di aumentare gli investimenti in tecnologie di IA sovrana. L’Italia si distingue con il 71% delle aziende intenzionate a potenziare gli investimenti in questo ambito, posizionandosi come secondo paese europeo subito dopo la Germania (73%) e davanti a Svizzera (64%), Spagna (63%) e Regno Unito (62%).
Le preoccupazioni legate alla sovranità tecnologica sono particolarmente rilevate in alcuni paesi: Danimarca (80%), Irlanda (72%) e Germania (72%) guidano la classifica delle nazioni più attente al controllo dei propri dati e infrastrutture.
Sovranità IA investimenti per Paese
Sovranità IA, settori strategici in prima linea
Come prevedibile, i settori con requisiti regolatori stringenti e che gestiscono dati sensibili sono i più inclini ad adottare soluzioni sovrane. Il settore bancario si colloca in testa con il 76% delle organizzazioni alla ricerca di queste soluzioni, seguito dall’energia (70%) e dalla pubblica amministrazione (69%). Questi numeri riflettono la necessità di proteggere informazioni critiche e rispettare normative sempre più stringenti in materia di privacy e sicurezza dei dati.
In pratica, settori come la finanza devono garantire che i dati dei clienti rimangano sotto controllo locale, mentre nel comparto energetico – considerato infrastruttura critica – la sovranità tecnologica diventa una questione di sicurezza nazionale.
Il paradosso europeo, tra controllo e innovazione
Mauro Macchi CEO Accenture EMEA
“L’Europa si trova davanti ad un paradosso”, sottolinea Mauro Macchi, CEO Accenture EMEA. “Da una parte i suoi leader comprendono la necessità di accelerare l’adozione dell’intelligenza artificiale per stimolare innovazione e crescita, ma dall’altra, poiché la maggior parte delle tecnologie proviene da fuori regione, ritengono che ciò rappresenti un rischio”.
La soluzione a questo dilemma emerge chiaramente dallo studio. Ossia, un approccio ibrido che bilancia controllo dei dati e accesso all’innovazione mondiale.
Secondo la ricerca, nelle organizzazioni europee solo un terzo dei progetti di IA (il 36%) richiede effettivamente un approccio sovrano, principalmente per motivi regolatori o per la sensibilità dei dati trattati.
Il restante 65% delle organizzazioni riconosce di non poter restare competitivo senza la collaborazione di fornitori tecnologici non europei, mentre il 57% valuta l’utilizzo di soluzioni sovrane offerte sia da provider europei sia extraeuropei.
Vale a dire, la sovranità non significa isolamento, ma scelta consapevole del giusto livello di controllo.
Dall’architettura tecnologica alla strategia di business
“Un approccio di IA sovrana non significa centralizzare tutto”, precisa Mauro Capo, Digital Sovereignty Lead Accenture EMEA. “L’obiettivo è scegliere il giusto livello di controllo su dati, infrastruttura e modelli, mantenendo al contempo i vantaggi di scala e la velocità d’innovazione offerti da alcuni provider globali”.
In alcuni casi è sufficiente garantire la residenza locale dei dati, in altri – come nel settore della difesa – serve una piena sovranità su tutti i componenti dell’intelligenza artificiale. Questa flessibilità architettonica rappresenta la chiave per massimizzare il valore dell’IA sovrana senza sacrificare competitività e innovazione.
Accenture è già attiva nel supportare questo percorso, con progetti concreti come quello realizzato in Svezia con Telia Cygate per aiutare le organizzazioni locali ad adottare soluzioni di intelligenza artificiale scalabili e sicure.
In Europa, l’azienda collabora con diversi partner infrastrutturali come Nebius, piattaforma cloud di IA basata ad Amsterdam, per creare le fondamenta delle fabbriche di IA sovrana dei clienti.
Da rischio a vantaggio competitivo, il cambio di prospettiva necessario
Oggi solo il 19% delle organizzazioni considera l’IA sovrana un vero vantaggio competitivo, mentre quasi la metà (il 48%) la adotta principalmente per motivi di conformità normativa. Inoltre, appena il 16% delle imprese europee ha portato il tema della sovranità dell’IA all’attenzione del CEO o del Consiglio di Amministrazione.
Questi numeri rivelano un gap significativo tra l’importanza strategica della sovranità digitale e la sua percezione attuale nelle organizzazioni.
In ogni caso, la consapevolezza sta crescendo. Infatti, il 73% delle organizzazioni ritiene che governi e istituzioni, come l’Unione Europea, debbano svolgere un ruolo attivo nel rafforzare la sovranità digitale europea, attraverso regolamentazione, incentivi e investimenti pubblici.
Anche le PMI sono considerate cruciali in questo percorso: il 70% delle imprese ritiene essenziale favorirne l’accesso a soluzioni sovrane, riconoscendo che la sovranità tecnologica non può essere un privilegio riservato solo alle grandi corporation.
Roadmap per il futuro
Accenture identifica quattro pilastri fondamentali per massimizzare il valore dell’intelligenza artificiale sovrana:
Guidare la sovranità dell’IA: rendere la sovranità dell’IA una priorità strategica per i CEO, allineando innovazione, gestione del rischio e crescita aziendale.
Ripensare la sovranità: passare da una visione di mera conformità normativa a una di vantaggio competitivo e creazione di valore tangibile.
Espandere l’ecosistema: costruire architetture ibride che uniscano la fiducia e il controllo locale con l’accesso all’innovazione globale.
Ridefinire l’architettura tecnologica: integrare la sovranità in ogni livello – dati, infrastrutture, modelli e applicazioni – per garantire resilienza e adattabilità nel lungo termine.
L’Italia e la sfida della sovranità tecnologica
Il posizionamento dell’Italia al secondo posto tra i Paesi europei per investimenti previsti in IA sovrana rappresenta un segnale incoraggiante. Con il 71% delle aziende pronte ad aumentare gli investimenti nei prossimi due anni, il Paese dimostra di aver compreso l’importanza strategica di questa trasformazione.
Si tratta di un’opportunità per rafforzare il tessuto produttivo nazionale, attrarre investimenti e talenti, e posizionarsi come hub europeo per l’innovazione tecnologica sovrana. La sfida ora è tradurre questa intenzione in azioni concrete, progetti implementati e competenze sviluppate.
Prospettive future, tra autonomia e competitività
La sovranità nell’intelligenza artificiale rappresenta oggi per l’Europa molto più di una risposta difensiva alle tensioni geopolitiche. È l’opportunità di ridefinire il proprio ruolo nell’ecosistema tecnologico globale, bilanciando l’apertura all’innovazione mondiale con la protezione degli interessi strategici nazionali ed europei.
Come sempre, il successo dipenderà dalla capacità di passare dalle intenzioni ai fatti: investimenti concreti in infrastrutture, sviluppo di competenze locali, collaborazione tra pubblico e privato, e soprattutto la volontà politica di fare della sovranità digitale una vera priorità strategica.
Il momento di agire è adesso. I dati Accenture dimostrano che le organizzazioni europee hanno compreso la posta in gioco. Resta da vedere se questa consapevolezza si tradurrà in quella leadership tecnologica che l’Europa ambisce a riconquistare.
Fonte: Studio Accenture condotto tra luglio e agosto 2025 su 1.928 organizzazioni in 28 Paesi e 18 settori
Facebook addio ai “Mi piace” e “Commenti”: la fine di un’era
Dal 10 febbraio 2026 Facebook eliminerà i pulsanti “Mi piace” e “Commenti” dai siti web. Un cambiamento che segna la fine del web aperto e l’ascesa definitiva delle piattaforme chiuse.
Meta ha annunciato che dal 10 febbraio 2026 due dei suoi plugin social più iconici scompariranno dal web. Stiamo parlando dei pulsanti “Mi piace” e “Commenti”.
Una notizia che a molti potrebbe sembrare marginale, quasi una nota in fondo alla pagina nella storia dei social media. Eppure, dietro questo abbandono si nota un chiaro segnale di cambiamento. Quel tipo di cambiamento che sta attraversando le piattaforme social media di cui tutti noi stiamo osservando gli effetti.
Quando Facebook voleva essere ovunque
Per capire cosa sta accadendo, dobbiamo fare un passo indietro e arrivare al 2010. In quegli anni Facebook stava vivendo la sua età d’oro. Era nel pieno di una crescita esponenziale, miliardi di utenti attivi e l’ambizione di spingere la piattaforma oltre i suoi naturali confini.
L’idea era semplice ma rivoluzionaria per quei tempi. E cioè portare il social network in ogni angolo del web attraverso l’Open Graph.
L’Open Graph era un sistema di protocolli e strumenti per sviluppatori che permetteva ai siti web di integrarsi profondamente con Facebook. In pratica, trasformava ogni pagina web in un “oggetto sociale” che poteva essere condiviso, commentato e apprezzato esattamente come un post su Facebook. I siti diventavano estensioni del social network e Facebook diventava il tessuto connettivo del web.
Cos’è l’Open Graph?
L’Open Graph è stato lanciato da Facebook nel 2010 come un set di strumenti che permetteva ai siti web di “parlare” con Facebook. Grazie a semplici righe di codice, ogni articolo, pagina o prodotto poteva diventare un contenuto social: gli utenti potevano mettere “Mi piace”, commentare o condividere direttamente dal sito esterno, e queste azioni comparivano nel loro profilo Facebook.
Era l’epoca in cui Facebook voleva essere il centro del web, non solo una destinazione tra tante.
I plugin “Mi piace” e “Commenti” rappresentavano l’incarnazione perfetta di questa visione. Permettevano agli utenti di interagire con contenuti esterni senza mai lasciare l’ecosistema Facebook. Un clic su quel bottoncino blu in fondo a un articolo, e l’azione veniva registrata, condivisa, amplificata attraverso il news feed. Per i publisher era una promessa allettante: traffico organico, engagement, visibilità gratuita.
E per un po’ ha funzionato. Blog, siti di news, portali di ogni tipo si sono riempiti di questi widget azzurri. Era il web sociale, aperto, interconnesso. O almeno così sembrava.
La motivazione: “un’era precedente dello sviluppo web”
Nel comunicato ufficiale, Meta spiega la decisione con toni asettici e professionali. I plugin, si legge, “riflettono un’era precedente dello sviluppo web” e “il loro utilizzo è naturalmente diminuito mentre il panorama digitale si è evoluto”.
Dal punto di vista tecnico, non ci saranno problemi. I plugin diventeranno semplicemente elementi invisibili (0x0 pixel si dice in gergo), senza causare errori o arrecare problemi ai siti.
Non serve alcuna azione da parte dei webmaster. I bottoncini scompariranno in silenzio, lasciando al massimo qualche riga di codice inutile da ripulire per chi vorrà e saprà farlo.
Ma la vera domanda è un’altra. Perché questo utilizzo è “naturalmente diminuito”? La risposta ci porta dritti al cambiamento a cui accennavo prima, che ha investito le piattaforme digitali negli ultimi anni.
Oggi il web che non esce più dalle piattaforme
La verità è che il modello delle piattaforme è cambiato radicalmente. Oggi gli utenti sono sempre più portati a non uscire più dalle piattaforme per andare sui siti web.
I contenuti si consumano direttamente dentro Facebook, Instagram, X, TikTok. Le piattaforme hanno costruito spazi enormi, ma chiusi. Dove tutto accade all’interno: video, articoli, conversazioni, acquisti.
Enormi perché ognuno di essi raccoglie un numero di utenti tale che potrebbe competere con la popolazione dei paesi più grande del pianeta. Suona come una contraddizione parlare delle piattaforme come “spazi chiusi”, ma è la realtà di oggi.
Il web “aperto”, quello degli anni 2010, dove i social media fungevano da ponte tra piattaforme e siti esterni, ha ceduto il passo a un modello in cui le piattaforme vogliono trattenere le persone dentro il proprio ecosistema.
Ogni clic verso l’esterno è un’opportunità persa. Ossia, meno tempo sulla piattaforma, meno dati raccolti, meno pubblicità visualizzata.
Non si tratta solo di una questione di numeri, ma di una strategia precisa. Meta, come le altre big tech, ha compreso che il vero valore sta nel catturare e trattenere l’attenzione. E l’attenzione non si trattiene abilitando l’uscita verso altri siti, ma costruendo un ambiente dove tutto ciò di cui hai bisogno è già disponibile.
Ecco chi ci perde
E quando quei tasti “Mi piace” e “Commenti” hanno smesso di funzionare realmente come generatori di traffico? Difficile dirlo con precisione, ma il declino è stato progressivo.
Gli algoritmi di Facebook hanno via via ridotto la visibilità dei contenuti esterni nel news feed. Le condivisioni organiche sono diventate sempre meno efficaci. I publisher hanno iniziato a notare che quei bottoncini blu generavano sempre meno clic, sempre meno engagement.
Eppure, per molti siti, soprattutto quelli di informazione e news che negli anni hanno costruito parte della loro strategia su Facebook, questa dismissione è comunque un campanello d’allarme. Anzi, forse più di un campanello d’allarme.
Non tanto per il traffico che effettivamente generano oggi questi plugin (probabilmente marginale), ma per ciò che rappresentano. Quindi la fine definitiva di un’era in cui i social media erano alleati dei publisher nel distribuire contenuti.
Il calo del traffico da Facebook
Secondo le analisi di Chartbeat e Similarweb nel maggio 2024, il traffico referral da Facebook verso siti di news e media è crollato del 50% in soli 12 mesi (da marzo 2023 a marzo 2024).
In sei anni, dal marzo 2018 al marzo 2024, il declino è stato del 58%, passando da 1,3 miliardi a 561 milioni di referral mensili. Come percentuale del traffico totale, Facebook è passato dal rappresentare il 30% nel 2018 al 7% nel 2024, per poi scendere ulteriormente al 4% nel novembre 2024 secondo dati Chartbeat riportati da Digiday.
Le piattaforme preferiscono che gli utenti leggano gli articoli direttamente all’interno dell’app, attraverso formati proprietari come Instant Articles o semplicemente attraverso anteprime sempre più ricche.
Il contesto più ampio, la “tiktokizzazione” del web
L’abbandono dei pulsanti Facebook si inserisce in un fenomeno più ampio che potremmo chiamare la “tiktokizzazione” del web. TikTok ha dimostrato che è possibile costruire una piattaforma di successo dove gli utenti passano ore senza mai uscire dall’app, consumando un flusso infinito di contenuti verticali.
Instagram ha abbracciato questa visione con i Reels. YouTube con gli Shorts. Anche X (ex Twitter) sta spingendo sempre più verso contenuti video nativi. L’obiettivo è lo stesso: massimizzare il tempo trascorso all’interno della piattaforma.
E quasi tutte le piattaforme stanno via via demotivando il clic verso link esterni, prediligendo contenuti senza link.
In questo scenario, i plugin che facilitano l’uscita verso siti esterni diventano non solo inutili, ma addirittura controproducenti rispetto alla strategia di business. Meta sta semplicemente prendendo atto di una realtà che era già evidente da tempo.
Cosa rimane e cosa cambia
Non tutti i plugin sociali di Facebook stanno scomparendo. Il pulsante “Condividi”, quello con la “F” blu che si vede in fondo a molti articoli, continuerà a funzionare. Condividere un link su Facebook è un’azione che avviene dentro la piattaforma e genera engagement al suo interno. Il “Mi piace” esterno e i commenti esterni, invece, creavano interazioni che vivevano in parte fuori dal controllo di Meta.
Per i publisher e i proprietari di siti, specie quelli che avevano costruito tutta la strategia di distribuzione su Facebook si fa dura. Non è più tempo di aspettarsi che le piattaforme social portino traffico come succedeva un tempo.
Il modello è cambiato. Se si vuole raggiungere il pubblico dove si trova, bisogna ripensare l’intera strategia e cercare di essere presenti sulle piattaforme in maniera diversa.
Le piattaforme digitali sempre più chiuse
La fine dei “Mi piace” e “Commenti” di Facebook non è un evento isolato, ma il sintomo di una trasformazione strutturale del web. Stiamo passando da un modello distribuito e interconnesso a uno fatto di ecosistemi chiusi e verticalmente integrati.
Le piattaforme non ambiscono più a essere ponti verso altri siti, ma scelgono di diventare destinazioni finali.
Questa evoluzione pone domande importanti. Un web frammentato in spazi chiusi, sebbene enormi, è davvero nell’interesse degli utenti? La concentrazione del potere nelle mani di poche piattaforme che controllano l’accesso all’informazione è sostenibile a lungo termine? E i publisher, come possono sopravvivere in un ecosistema dove il traffico organico dai social è sempre più ridotto?
Non ci sono risposte semplici. Ma è certo che quando quei bottoncini blu scompariranno il 10 febbraio 2026, con loro se ne andrà definitivamente un pezzo della storia del web.
Un web che, per qualche anno, aveva creduto possibile essere allo stesso tempo sociale, aperto e interconnesso. Prima che le logiche di business e il controllo dell’attenzione prendessero il sopravvento.
[L’immagine di copertina è stata realizzata utilizzando il modello di IA generativa DALL-E 3]