La tragedia in Francia e l’iniziativa di Macron riaccendono sull’età minima per accedere ai social media. Tra divieti, educazione all’uso delle piattaforme e salute mentale, l’UE è chiamata a decidere. E a farlo in fretta.
Si torna a parlare del rapporto tra adolescenti e piattaforme digitali, tra giovani e social media. E purtroppo, ancora una volta, lo si fa in seguito a eventi tragici. L’attenzione in questi giorni è puntata su quanto accaduto in Francia, mentre alcuni hanno provato a collegare anche la recente tragedia avvenuta in Austria. Ma al momento, va detto chiaramente, non ci sono evidenze che leghino direttamente quel fatto all’uso dei social.
Il caso francese e l’intervento di Macron
Diverso è il caso francese, che ha riportato in primo piano la discussione sul legame tra uso delle piattaforme digitali e fragilità adolescenziale. A rilanciarlo è stato direttamente il presidente Emmanuel Macron, intervenuto in modo netto e deciso dopo l’ennesimo episodio di violenza in ambito scolastico.
Un ragazzo di 14 anni ha aggredito e ucciso, con una violenza inaudita, una bidella nella scuola che frequentava. La donna stava controllando lo zaino del ragazzo. Una prassi. Ma la reazione del giovane è stata tanto brutale quanto incomprensibile.
Di fronte a questo fatto, Macron ha annunciato l’intenzione di introdurre una legge nazionale che vieti l’accesso ai social media ai minori di 15 anni. Insieme al ministro per il Digitale, ha rivolto un ultimatum all’Unione Europea: se entro tre mesi non verrà adottata una norma comune, la Francia procederà autonomamente. Una posizione netta, che riaccende un dibattito già esistente ma spesso eluso.
Social media e adolescenti, è arrivato il momento di decidere
Un grande problema che si è acuito con la pandemia
Questa discussione non nasce oggi. Già prima della pandemia c’erano segnali evidenti, ma è stato durante i lunghi mesi di isolamento che il digitale è diventato l’unico spazio possibile per studiare, lavorare, comunicare. Un’accelerazione improvvisa che ha portato benefici, certo, ma anche squilibri che oggi si manifestano con forza.
La piattaforma alimentava un senso costante di inadeguatezza, spingendo a rincorrere modelli estetici irraggiungibili, associati a una forma distorta di approvazione sociale. Il risultato? Un aumento della pressione psicologica e un impatto diretto sulla salute mentale.
Oggi, a distanza di anni, Instagram prova a ricalibrare il proprio approccio.
Tra maggio e giugno 2025 ha lanciato una campagna rivolta all’Unione Europea, chiedendo che la verifica dell’età degli utenti avvenga già nei negozi digitali, App Store e Google Play, prima ancora del download.
L’obiettivo dichiarato è quello di evitare dichiarazioni d’età fittizie e garantire un accesso più responsabile.
L’UE potrebbe partire dal DSA
Ma questo è solo un pezzo del problema. Perché in Europa esiste già il Digital Services Act, entrato in vigore nel 2022, che impone obblighi di trasparenza alle piattaforme. Tuttavia, non prevede ancora un sistema chiaro e vincolante per la verifica dell’età. E così, mentre alcuni Paesi come Francia, Spagna, Grecia e Danimarca cercano di armonizzare gli interventi, a livello europeo manca ancora un’azione realmente coordinata.
Social media e adolescenti, caso Australia
C’è poi il caso dell’Australia, che ha adottato una delle normative più radicali: dal 2025 vigerà il divieto di accesso ai social media per i minori di 16 anni. Una legge chiara, che prevede sanzioni fino a 50 milioni di dollari australiani per le piattaforme che non si adeguano. Anche qui, la spinta è arrivata da un’opinione pubblica sempre più consapevole dei rischi a cui sono esposti i più giovani.
Ma è davvero il divieto la soluzione definitiva?
No. E serve dirlo con chiarezza. Vietare, da solo, non basta. Occorre educare. Occorre formare. Occorre accompagnare i ragazzi verso un uso più consapevole e responsabile dei media digitali. Serve dare loro gli strumenti per riconoscere e gestire la pressione che deriva da un’esposizione costante ai contenuti e ai giudizi degli altri.
Istruzioni e attenzione all’uso più forte dei divieti
Stiamo parlando di effetti concreti: calo dell’attenzione, reazioni emotive eccessive, incapacità di gestire frustrazioni e situazioni complesse.
Tutti elementi che pesano enormemente sulla crescita personale, e che possono portare, come purtroppo abbiamo visto, a conseguenze gravi, talvolta irreparabili.
Su questo dovrebbe riflettere la politica. Ed è qui che le istituzioni devono agire, non con reazioni di pancia, ma con strumenti efficaci e coerenti. Perché il problema è reale, ed è sempre più grande.
Oggi è il momento delle decisioni. Decisioni che devono mettere al centro il benessere dei nostri ragazzi. Basta inseguire like, basta inseguire l’effimero. Perché l’effimero scompare. Ma i nostri figli restano. E la loro salute mentale conta più di qualsiasi algoritmo.
Accenture annuncia l’intenzione di acquisire l’area Integrated Product Support di SIPAL, potenziando la propria presenza nei settori strategici della difesa e dell’aerospazio in Italia e in Europa.
L’operazione, che coinvolge circa 250 professionisti con sede principale a Torino e sedi operative in tutta Italia, rappresenta un tassello chiave nella costruzione di un polo di eccellenza ingegneristica a supporto della trasformazione tecnologica dell’industria militare e aerospaziale.
L’area IPS di SIPAL è specializzata in attività complesse lungo l’intero ciclo di vita dei prodotti: dalla gestione tecnica alla manutenzione, fino alla formazione e alla produzione.
Un insieme di competenze che oggi confluisce all’interno di Industry X, la business unit di Accenture dedicata alla trasformazione dell’ingegneria e delle infrastrutture, alimentata da tecnologie digitali, intelligenza artificiale e automazione.
Accenture si estende verso l’aerospazio con l’area IPS di SIPAL
Un’acquisizione strategica per Accenture
L’operazione va ben oltre il semplice ampliamento delle competenze: rappresenta un consolidamento della presenza di Accenture nei settori strategici per la sovranità tecnologica europea.
Integrando le capacità di IPS, Accenture potenzia la propria offerta in ambiti ad alto valore aggiunto come i sistemi software-defined, le aerostrutture, i veicoli militari e le piattaforme navali.
Si tratta di un rafforzamento concreto delle capacità progettuali, operative e di supporto tecnico nei confronti di grandi programmi nazionali ed europei, in un contesto geopolitico che richiede maggiore autonomia tecnologica e resilienza industriale.
Come ha sottolineato Teodoro Lio, Amministratore Delegato di Accenture Italia, “l’espansione con nuove competenze specialistiche in ingegneria della difesa, combinate con la nostra intimità con le tecnologie, l’intelligenza artificiale e i dati, dà vita a una realtà unica a disposizione della trasformazione delle industrie del settore”.
Sviluppo industriale e continuità occupazionale
La scelta di SIPAL di cedere l’area IPS ad Accenture va letta anche come una valorizzazione del know-how italiano in un contesto globale. Come dichiarato da Ignazio Dogliani, CEO di SIPAL, l’operazione apre a nuove opportunità di crescita per il team IPS e garantisce continuità in termini occupazionali, potenziando al tempo stesso la proiezione internazionale delle competenze maturate nel nostro Paese.
Continua la crescita di Accenture in Italia
L’acquisizione si inserisce in una traiettoria ormai chiara: dal 2023, Accenture ha completato in Italia sei operazioni strategiche, abbracciando ambiti che vanno dall’intelligenza artificiale (Ammagamma) alle reti 5G (Fibermind), fino alla Pubblica Amministrazione e alla giustizia digitale.
L’ingresso dell’area IPS di SIPAL consolida ulteriormente questa strategia, posizionando l’azienda come un attore determinante nel futuro industriale e tecnologico italiano.
Non sono stati divulgati i dettagli economici dell’operazione, che resta soggetta alle consuete condizioni di chiusura.
In un momento in cui l’Europa punta alla costruzione di una maggiore autonomia tecnologica e industriale, operazioni come questa segnalano il ruolo crescente di Accenture come abilitatore di innovazione nei settori strategici. Un’azienda globale che investe nel talento locale per costruire infrastrutture tecnologiche a prova di futuro.
Dopo 130 giorni si chiude l’incarico di Elon Musk nel governo USA alla guida del DOGE. Un esperimento tra riforme mancate e crisi aziendali, che ridefinisce i confini della sua leadership pubblica.
Un messaggio essenziale, nel quale ha ringraziato per l’opportunità ricevuta e sottolineato l’impegno profuso nel promuovere l’efficienza del governo federale.
Una chiusura che segna la fine di un’esperienza breve ma densa di implicazioni politiche, economiche e non senza polemiche.
Elon Musk e DOGE, incarico a tempo
L’incarico, come previsto dalla normativa federale statunitense, era stato concepito sin dall’inizio come temporaneo. Musk era stato inquadrato come special government employee, una figura prevista per consentire a personalità esterne al governo di collaborare su obiettivi specifici per un massimo di 130 giorni all’anno.
Il suo mandato si è concluso proprio allo scadere di questo limite. Ma la sua uscita arriva anche dopo settimane segnate da crescenti tensioni all’interno dell’amministrazione.
Durante i quattro mesi trascorsi alla guida del DOGE, il Dipartimento per l’Efficienza Governativa, Musk ha lanciato un programma ambizioso di tagli alla spesa pubblica.
Ecco perché Elon Musk lascia l’amministrazione Trump
DOGE, un piano molto ambizioso
L’obiettivo dichiarato era ridurre 2.000 miliardi di dollari di sprechi nel bilancio federale. Ma l’effettivo risparmio ottenuto si è fermato a circa 150 miliardi. Il divario tra l’intenzione iniziale e il risultato finale ha evidenziato quanto sia complesso intervenire nella macchina statale con logiche da impresa tecnologica, se non da startup.
Un momento di rottura si è verificato con la pubblicazione della nuova legge di bilancio proposta dal presidente Trump, che ha previsto una spesa complessiva superiore a 6 trilioni di dollari. Musk ha criticato la manovra, ritenendola contraria alla missione del DOGE e accusandola di aggravare il deficit federale. La sua affermazione – “può essere grande o bella, ma non entrambe” – ha sintetizzato un dissenso ormai evidente.
Elon Musk e il difficile momento delle sue aziende
Nel frattempo, le sue aziende affrontavano un periodo difficile.
Tesla ha registrato un calo dei profitti pari al 71% nel primo trimestre del 2025, accompagnato da un crollo delle vendite.
Gli investitori hanno reagito negativamente, percependo l’impegno politico di Musk come una fonte di distrazione e instabilità.
Per non parlare poi delle tensioni aziendali generate dalle posizioni politiche tenute da Musk in questi mesi. In molte occasioni ci sono state speculazioni che parlavano di malumori degli investitori di Tesla intenti a cercare un nuovo CEO.
Elon Musk e il suo esperimento governativo
La conclusione dell’esperienza governativa non rappresenta solo la chiusura di un ruolo formalmente a tempo, ma anche la fine di un esperimento. Musk ha provato a estendere la propria influenza alla sfera istituzionale, portando dentro le logiche del potere pubblico l’approccio rapido e semplificato della cultura tech.
L’esito, almeno in questa fase, è stato parziale. La struttura federale ha mostrato resistenza, le tensioni interne hanno prevalso e le sue aziende hanno sofferto.
Con il ritorno a tempo pieno alla guida delle sue imprese, Musk archivia una parentesi che non ha riformato l’apparato statale, ma ha contribuito a ridefinire i confini della leadership contemporanea. Una leadership che si muove tra tecnologia, mercato e rappresentazione pubblica, generando nuove tensioni tra ciò che si intende per efficienza e ciò che significa visione nel concreto.
La sua uscita dal governo, pur essendo prevista, assume oggi un significato evidente. Il ritorno a una dimensione imprenditoriale che resta centrale nella narrazione globale, ma segnata, in questa fase, da un bilancio governativo in chiaroscuro.
Google ha lanciato AI Mode. L’intelligenza artificiale cambia la ricerca online e trasforma l’accesso alle informazioni. Da Search Engine a Answer Engine. Ecco cosa cambia per utenti e creator di contenuti.
Google ha lanciato ufficialmente AI Mode, una nuova modalità di ricerca che in effetti segna un passaggio epocale per l’esperienza utente.
Se fino a ieri per fare le nostre ricerche ragionavamo per parole chiavi e ci affidavamo a una lista di link da esplorare, oggi Google ci propone direttamente una risposta generata dall’intelligenza artificiale. Pronta, contestualizzata e apparentemente completa.
Un cambio di paradigma che potrebbe sembrare tecnico, ma che in realtà ci riguarda direttamente, come creatori di contenuti e come fruitori del motore di ricerca.
L’ingresso di Gemini 2.0 nella ricerca
L’elemento chiave di questa trasformazione è il modello Gemini 2.0, presentato durante il Google I/O 2025. Tutto si basa sui nuovi modelli Gemini 2.5 Pro e Gemini Flash.
Non è semplicemente l’ultimo aggiornamento del sistema. Siamo di fronte a un salto di generazione. Un’intelligenza artificiale multimodale, capace di elaborare e combinare testi, immagini e (presto) anche audio e video.
Questa IA non si limita solo a trovare e restituire contenuti, ma interpretarli, riorganizzarli e restituirli sotto forma di risposta sintetica generata automaticamente, all’interno della pagina di ricerca.
Cos’è AI Mode di Google e come cambia la ricerca online
Un cambiamento visibile, da Search Engine a Answer Engine
Si tratta di un cambiamento che avviene prima ancora di cliccare su qualcosa. Google non mostra più dove trovare l’informazione, ma decide direttamente cosa mostrarci. Questo sulla base della selezione delle fonti sulla base di un valore che oggi diventa sempre più importante, che è quello dell’Autorevolezza.
Possiamo affermare che si passa da una logica “Search Engine” a quella “Answer Engine”. La ricerca si basa sulla domanda e il risultato della ricerca sarà un testo esaustivo in chiave conversazionale.
Senza più bisogno di approfondire visitando link esterni.
Cosa cambia per i creator
Questo nuovo approccio comporta una riflessione urgente anche per chi lavora nel mondo dei contenuti.
Se Google mostra una sintesi generata da IA direttamente in SERP, gli utenti cliccheranno meno sui siti web. E quei contenuti, scritti da professionisti, giornalisti, blogger e aziende, rischiano di diventare solo materiale grezzo per l’addestramento e la sintesi.
La classica ottimizzazione SEO potrebbe non bastare più. L’obiettivo non è solo “essere trovati”, ma essere assorbiti, rielaborati e, si spera, citati.
Una sfida notevole per chi fa dell’accuratezza e della qualità il proprio punto di forza.
La leva della trasparenza
Un altro punto critico riguarda la trasparenza. Le risposte fornite da AI Mode non sempre (e non in grande evidenza) includono le fonti in modo esplicito e completo. L’utente riceve una risposta senza sapere da dove proviene davvero.
Il concetto di fiducia passa quindi attraverso il contenuto che Google ci presenta come affidabile, perché ritenuto “Autorevole”. Ma val la pena sempre fare un minimo di approfondimento e di confronto.
E in un tempo in cui il rischio disinformazione è alto, affidare tutto a una sintesi automatica può diventare un terreno scivoloso.
AI Mode, un assistente nella ricerca online
Google ha sempre cercato di presentarsi come uno strumento neutrale, al servizio dell’utente. Ma con l’introduzione di AI Mode, si trasforma anche in un assistente proattivo, in grado di anticipare, suggerire e decidere per noi.
Il confine tra assistenza e mediazione si fa sempre più sottile. Il rischio è quello di non porci più domande complesse, accontentandoci di risposte confezionate, semplici, coerenti.
Restare sempre consapevoli
L’AI Mode di Google è già attivo per molti utenti e destinato ad espandersi rapidamente. Dietro l’entusiasmo per l’innovazione, c’è la necessità di restare consapevoli di cosa comporta questo cambiamento. Dal ruolo delle fonti, alla visibilità dei contenuti, fino al modo in cui costruiremo il nostro pensiero critico.
Forse stiamo entrando in una nuova era della conoscenza, più veloce ma anche più guidata. E il punto non è resistere, ma capire come restare protagonisti in questo nuovo scenario dettato dalla IA.
[Immagine di copertina realizzata da Franz Russo utilizzando il modello di IA Generativa Chatgpt-4o]
Threads introduce la possibilità di inserire fino a 5 link nella bio del profilo, ampliando le opportunità per creator e brand. Una funzione già introdotta su Instagram due anni fa.
Threads continua ad evolversi, e lo fa introducendo una funzionalità che potrebbe segnare un nuovo passo verso la maturità della piattaforma. Da oggi è possibile inserire fino a cinque link nella bio del proprio profilo.
Una funzionalità che strizza l’occhio a creator, brand e professionisti, offrendo loro uno strumento in più per rendere più completa e utile la propria presenza sulla piattaforma.
Oggi quella stessa logica viene estesa anche a Threads, in quella che si delinea sempre di più come un’integrazione strategica tra le due piattaforme.
Anche su Threads si possono aggiungere fino a 5 link nella bio
Su Threads una bio più ricca e più utile
L’annuncio è arrivato direttamente da Meta attraverso questo post pubblicato nel mese di marzo, dove si illustrano alcune nuove funzioni pensate per rendere Threads un’esperienza più personalizzata e controllabile da parte dell’utente.
Ma è nelle ultime settimane che questa funzionalità ha cominciato a essere distribuita su larga scala, come confermato da TechCrunch e Social Media Today, tra gli altri.
A cosa serve (davvero) avere più link
Poter inserire più link significa offrire più strade per chi visita il profilo: il link alla newsletter, al sito ufficiale, a un articolo appena pubblicato, a un prodotto, ad un’altra piattaforma.
Una strategia che aiuta i creator a non essere costretti a scegliere e a non dipendere da soluzioni esterne come Linktree o simili.
L’interfaccia per aggiungere i link è semplice e intuitiva. Si va su “Modifica profilo” e si può aggiungere, come ricordato prima, fino a cinque link, ciascuno con una breve descrizione.
Una funzione pensata per chi crea contenuti
Oltre alla possibilità di aggiungere più link, Meta ha anche introdotto strumenti di analisi per monitorare il numero di clic che ogni link riceve.
È una novità importante soprattutto per chi lavora in ottica di performance e engagement, perché consente di capire quali contenuti funzionano meglio e come ottimizzare le strategie di pubblicazione.
Threads, una direzione sempre più chiara
Threads, lanciata come piattaforma “testuale” in risposta all’evoluzione (o involuzione) di X, sta trovando, piano piano, una sua identità.
Non è solo il luogo dove si può postare, ma sta diventando sempre più, tra mille cose ancora da sistemare, uno spazio utile per comunicare in modo professionale, per integrare diversi canali e per offrire valore a chi ci segue.
L’apertura ai 5 link nella bio è solo un tassello, ma dice molto sulla visione a medio termine. E cioè rendere Threads più flessibile, più utile e più integrata in un ecosistema, quello di Meta, che vuole trattenere utenti e creator offrendo loro sempre più strumenti.
Duolingo taglia il lavoro umano, Klarna lo reintegra. Due scelte opposte e una verità, e cioè che l’IA da sola non basta. Due casi della stessa medaglia del rapporto tra uomo e macchina.
Sicuramente ricorderete il caso Duolingo, di cui abbiamo parlato. L’azienda, nota per l’apprendimento delle lingue, ha scelto di diventare una realtà AI-first, decidendo di non rinnovare le collaborazioni esterne, in particolare con traduttori e revisori, per affidarsi completamente all’intelligenza artificiale nella produzione dei contenuti.
Un passaggio netto per l’azienda, per cui l’IA diventa asse strategico per crescere, ridurre tempi e costi, e dare continuità alla visione dell’azienda. Ai collaboratori interni viene proposta formazione e coaching per aggiornare le competenze e gestire, di fatto, il controllo umano a valle del processo automatico. Ma è chiaro fin da subito che il centro della produzione si è spostato verso la macchina.
Questo caso ha fatto discutere. Perché, da quando l’intelligenza artificiale generativa è entrata in scena in modo dirompente, si è tornati ciclicamente su un riflesso condizionato: la macchina sostituirà il lavoro umano?
Ma la situazione attuale è ben diversa da questa narrazione semplicistica. No, la macchina non può sostituire l’uomo. Non oggi. E probabilmente, non domani.
Ridurre il dibattito a uno scontro secco tra uomo e macchina, senza considerare il contesto, la complessità e le responsabilità, significa perdere una parte importante della riflessione. Ed è proprio qui che si inserisce il secondo caso di cui voglio parlarvi oggi. E cioè Klarna.
La IA e il lavoro umano, i casi Duolingo e Klarna
Caso Klarna, un passo indietro per fare chiarezza
Klarna, azienda svedese attiva nel settore dei pagamenti online, è diventata nota anche per il suo sistema di dilazione integrata al checkout. Ma la notizia che ci interessa è un’altra. Dopo un anno e mezzo di utilizzo intensivo dell’IA nel servizio clienti, con un’efficienza dichiarata del 75%, l’azienda fa un passo indietro.
Tutto il customer care era stato affidato a un assistente virtuale basato su OpenAI, in grado di gestire richieste in oltre 35 lingue. Un’infrastruttura che, sulla carta, funzionava alla perfezione.
Ma l’esperienza ha mostrato un’altra realtà. L’aumento delle lamentele da parte degli utenti, un calo della qualità del servizio e, soprattutto, l’assenza di empatia. Perché sì, l’intelligenza artificiale non è empatica. E l’empatia, nel servizio clienti, non è un optional.
Alla luce di tutto questo, Klarna ha rivisto la sua strategia. L’intelligenza artificiale non viene abbandonata, ma affiancata da un ritorno dell’interazione umana, con l’obiettivo di garantire un’assistenza più completa, capace di rispondere anche ai casi più delicati o complessi.
Un ribaltamento che porta a dire che non è l’uomo a cedere il passo all’IA, ma ancora oggi è l’IA ad avere bisogno dell’uomo per funzionare davvero.
L’IA non è cosciente e non potrà sostituire l’essere umano
In una delle puntate di ConversazioniAI, il format che conduco ogni lunedì alle 19 insieme a Federica Attore, è intervenuta la scienziata Mirella Mastretti, esperta di intelligenza artificiale. E in modo molto chiaro ha ricordato un punto fondamentale. L’IA non è in grado di sostituire l’uomo. E non lo sarà nel prossimo futuro.
Perché? Perché non ha consapevolezza di sé, non ha coscienza, non ha desideri né intenzioni. E il giorno in cui dovesse acquisirli, ipotesi puramente teorica al momento, parleremmo di qualcosa di molto diverso da ciò che oggi intendiamo per “intelligenza artificiale generativa”. Un giorno che, allo stato attuale, non è affatto realistico.
Due facce della stessa medaglia
I casi di Duolingo e Klarna ci raccontano la stessa storia da due punti di vista opposti. Da una parte, la macchina che avanza, sostituendo il lavoro umano. Dall’altra, la macchina che si ferma, riconoscendo i suoi limiti.
Entrambe le aziende stanno cercando la strategia più efficace per integrare l’IA nei propri processi. Non è una questione ideologica. Si tratta di una questione di sostenibilità, di efficienza, ma anche di qualità, fiducia, empatia, relazione.
Ecco perché serve un approccio più profondo, più lucido e meno superficiale. Non basta dire “funziona” o “non funziona”. Ogni azienda, e ogni professionista, è chiamato a valutare come adottare l’IA nel modo più responsabile e controllato possibile, mantenendo il presidio umano come elemento indispensabile.
Perché la verità è più semplice di quella che siamo portati a considerare. L’IA generativa ha ancora, e lo sarà ancora a lungo, bisogno dell’intelligenza umana. E questo, al netto di ogni entusiasmo tecnologico, è un dato di fatto.
Con l’elezione di Papa Leone XIV si apre una nuova fase per la Chiesa. Da osservare quale sarà il rapporto del nuovo pontefice con IA, digitale ed etica dopo l’eredità di Papa Francesco.
Ieri, 8 maggio 2025, la Chiesa cattolica ha voltato pagina. La fumata bianca, apparsa alle 18:07 dalla Cappella Sistina, ha annunciato al mondo che il nuovo Papa, eletto dopo due giorni di Conclave, è Robert Francis Prevost, ora Leone XIV, primo Pontefice della storia proveniente dagli Usa, da Chicago per la precisione.
Un nome che richiama Leone XIII, il Papa che con l’enciclica Rerum Novarum diede inizio alla Dottrina sociale della Chiesa, con un’attenzione esplicita alla dignità del lavoro.
E oggi, in un mondo segnato dalla rivoluzione dell’intelligenza artificiale, non è un richiamo casuale.
Questo passaggio di testimone rappresenta un momento simbolico, ma anche molto concreto, per riflettere su come la Chiesa affronterà le grandi trasformazioni in corso, a partire da quelle che riguardano le tecnologie emergenti, il digitale e l’IA.
Temi, come sappiamo, che Papa Francesco ha sempre affrontato con grande lucidità e responsabilità etica, lasciando un’impronta ben visibile in ogni suo intervento pubblico sull’argomento.
Papa Leone XIV di fronte alle sfide di IA, digitale ed etica
L’attenzione costante di Papa Francesco al digitale e alla IA
Non solo per l’uso attivo dei canali digitali, ma per la capacità di comprenderne i meccanismi, le derive e le potenzialità. Durante il suo pontificato, ha parlato apertamente delle dinamiche di polarizzazione che attraversano le piattaforme, del rischio di esclusione digitale, e più di recente, della necessità urgente di una governance etica dell’intelligenza artificiale.
Proprio nel 2023, Papa Francesco aveva indicato l’IA come una delle grandi sfide morali del nostro tempo, sottolineando la responsabilità collettiva nel suo sviluppo. La scelta del tema dell’IA e della pace per la Giornata Mondiale della Pace 2024 ne è stata una chiara conferma. Un Papa che ha saputo tenere insieme spirito e tecnologia, etica e futuro.
Papa Leone XIV: un nome evocativo
Il cardinale Prevost, ora Leone XIV, non ha ancora rilasciato dichiarazioni ufficiali sull’IA da Papa. Ma ci sono già alcuni segnali che meritano attenzione.
Inoltre, da cardinale, Prevost ha mostrato attenzione alle questioni sociali e morali del nostro tempo, intervenendo anche attraverso i social media.
In particolare, ha dimostrato di comprendere la complessità dell’uso pubblico della parola in rete, prendendo posizione contro semplificazioni pericolose e retoriche identitarie.
Una sensibilità che, se traslata nel ruolo di Pontefice, potrebbe tradursi in una visione chiara sul ruolo delle tecnologie nei rapporti umani e nella costruzione di comunità.
La sfida di una Chiesa che cammina anche nel digitale
Siamo ancora all’inizio di questo nuovo pontificato, ma è già evidente che la posta in gioco non riguarda solo il futuro della Chiesa, bensì il suo rapporto con un mondo radicalmente trasformato dal digitale.
Le piattaforme digitali, l’intelligenza artificiale generativa, i modelli linguistici, gli algoritmi che condizionano l’informazione e le relazioni, sono oggi questioni politiche che toccano anche le comunità spirituali.
Sarà interessante vedere se Leone XIV manterrà quell’atteggiamento di apertura critica e dialogante che ha caratterizzato Papa Francesco, oppure se darà una nuova impronta, magari più orientata alla concretezza dell’azione sociale e alla protezione della dignità umana nell’era degli automatismi.
L’eredità di Francesco potrebbe continuare
Papa Francesco lascia un’eredità forte sul fronte della comunicazione, della responsabilità etica e della presenza consapevole nel digitale. E oggi, con Leone XIV, si apre una fase nuova che potrebbe consolidare quanto fatto finora o reinterpretarlo alla luce delle sfide future.
In ogni caso, sarà fondamentale continuare a osservare da vicino le parole e i gesti di questo nuovo Papa rispetto all’innovazione tecnologica, alla giustizia sociale e al ruolo dell’informazione.
Perché oggi, più che mai, la spiritualità si misura anche nella capacità di saper affrontare criticamente il presente digitale.
TikTok è stata multata per 530 milioni di euro dall’UE per aver trasferito impropriamente dati degli utenti in Cina, violando il GDPR. Un caso che riaccende il dibattito sulla privacy.
Il motivo? Un’inchiesta durata quattro anni ha accertato che l’azienda ha trasferito impropriamente dati degli utenti europei in Cina, senza rispettare quanto previsto dal GDPR. Una sanzione pesante, che si inserisce in un contesto di crescente diffidenza verso la piattaforma di proprietà del colosso cinese ByteDance.
Una delle multe più alte mai comminate sotto il GDPR
A decidere la sanzione è stata la Data Protection Commission (DPC) irlandese, autorità capofila per TikTok in quanto la sede europea dell’azienda si trova a Dublino.
Dopo un’indagine avviata nel settembre 2021, la DPC ha stabilito che TikTok ha violato l’articolo 44 del Regolamento generale sulla protezione dei dati, che impone regole molto rigide sui trasferimenti verso paesi terzi.
Nello specifico, è stato accertato che TikTok ha consentito l’accesso remoto ai dati degli utenti europei da parte di dipendenti e personale tecnico con sede in Cina, senza adottare misure sufficienti a garantire un livello di protezione “equivalente” a quello previsto dalla normativa europea.
“Agli utenti europei non è stato garantito un livello di protezione sostanzialmente equivalente a quello garantito all’interno dell’UE“, ha affermato in una nota Graham Doyle, vice commissario della Commissione irlandese per la protezione dei dati.
Si tratta della terza multa più elevata mai inflitta nell’ambito del GDPR, dopo quelle a Meta (1,2 miliardi di euro) e Amazon (746 milioni di euro). E, per TikTok, non è nemmeno la prima: nel 2023 era già stata sanzionata con una multa da 345 milioni di euro per violazioni legate al trattamento dei dati dei minori.
TikTok, multa dall’UE per trasferimento di dati in Cina
Il cuore della questione: i dati trasferiti in Cina
A preoccupare le autorità europee è soprattutto il fatto che i dati degli utenti – compresi quelli di giovani e giovanissimi – siano potenzialmente accessibili da un paese, la Cina, i cui standard legali e di tutela della privacy sono molto diversi da quelli europei.
La legge cinese sulla sicurezza nazionale, infatti, impone alle aziende di collaborare con il governo qualora richiesto, anche in termini di accesso ai dati. E questo, per i regolatori europei, rappresenta un rischio concreto per la protezione delle informazioni personali.
TikTok ha inizialmente negato che i dati degli utenti europei fossero conservati o accessibili dalla Cina. Ma nel febbraio 2025 ha ammesso che una “quantità limitata” di dati era effettivamente archiviata in territorio cinese, contraddicendo quanto dichiarato fino a quel momento. Un elemento che ha avuto un peso determinante nelle conclusioni della DPC.
Il nodo della trasparenza: cosa non è stato detto agli utenti
Un altro punto su cui si è concentrata l’indagine riguarda la trasparenza. Secondo quanto accertato, TikTok non ha informato in modo chiaro gli utenti che i loro dati potevano essere trasferiti e trattati in Cina. Nella sua informativa sulla privacy, infatti, il paese non veniva menzionato in maniera esplicita.
Non solo. L’indagine ha evidenziato che TikTok non ha condotto un’adeguata valutazione dei rischi legati a questi trasferimenti, né ha messo in atto misure tecniche e organizzative sufficienti per tutelare i dati.
Ora la piattaforma ha sei mesi di tempo per mettersi in regola, altrimenti rischia la sospensione del trasferimento dei dati verso la Cina.
TikTok risponde: “La decisione si riferisce al passato”
TikTok ha fatto sapere di non condividere le conclusioni della DPC e di voler presentare ricorso. Ha inoltre sottolineato che la decisione si basa su pratiche risalenti a prima del maggio 2023, ossia prima dell’implementazione del cosiddetto Project Clover.
Si tratta di un programma da 12 miliardi di euro con cui TikTok mira a rassicurare le autorità europee. Tra le misure previste, la costruzione di tre data center nel continente, una revisione dei protocolli di accesso ai dati e un sistema di audit indipendenti sulla gestione delle informazioni personali.
“Questa sentenza rischia di creare un precedente con conseguenze di vasta portata per le aziende e interi settori in tutta Europa che operano su scala globale“, ha affermato TikTok in una nota.
Un’operazione che, al di là del tentativo di salvaguardare la propria immagine, dimostra quanto il tema del trattamento dei dati stia diventando centrale anche per una piattaforma cresciuta grazie alla leggerezza dei suoi contenuti.
Una decisione che fu seguita a ruota anche da altri organismi comunitari e da diversi governi nazionali. Da allora, la pressione su TikTok non si è mai realmente allentata.
E adesso, con questa multa, l’Unione Europea manda un segnale chiaro. E cioè che il trattamento dei dati personali non è negoziabile. Tanto più quando si parla di minorenni, e quando i dati rischiano di finire sotto la giurisdizione di paesi che non offrono garanzie equivalenti a quelle europee.
Perché questa vicenda è importante
Questa vicenda non è soltanto una questione squisitamente giuridica. È una questione di fiducia. E, nel mondo digitale – lo abbiamo imparato bene in questi anni – la fiducia è tutto.
Il modo in cui le piattaforme trattano i dati degli utenti – cosa raccolgono, dove li conservano, chi può accedervi – definisce il perimetro entro cui possiamo ancora sentirci “cittadini” e non solo “consumatori”.
E TikTok, oggi, è chiamata a scegliere quale strada vuole davvero percorrere. Non solo per evitare sanzioni, ma per dimostrare se è disposta a rispettare, davvero, le regole del gioco europeo.
Dopo 500 giorni di silenzio dall’apertura dell’indagine europea su X, venti deputati UE scrivono alla Commissione: bias algoritmico, disinformazione e rischio per la democrazia al centro della lettera.
Sono passati 500 giorni da quando l’Unione Europea ha aperto un’indagine formale contro X, la piattaforma di proprietà di Elon Musk, per presunte violazioni del Digital Services Act (DSA). Da allora, silenzio. Nessuna comunicazione ufficiale, nessun provvedimento. Solo un’attesa che si fa ora sempre più difficile da giustificare.
“A partire da domani, 1° maggio 2025, saranno trascorsi esattamente 500 giorni dall’inizio dell’indagine, e la mancanza di un esito conclusivo risulta sempre più allarmante”, si legge nelle prime righe della lettera”.
Un documento diretto, dettagliato e ben strutturato, che rappresenta non solo un richiamo politico, ma anche una denuncia chiara su quanto sta accadendo all’interno di X.
X nel mirino dell’UE, la lettera dei deputati europei
Il contesto: un’indagine lunga e silenziosa
Il procedimento formale era stato annunciato dalla Commissione Europea il 18 dicembre 2023. Le violazioni contestate erano numerose: mancanza di trasparenza algoritmica, gestione opaca dei contenuti, disinformazione, e gravi carenze nel contrasto ai contenuti illegali.
A distanza di oltre un anno e mezzo, la situazione non solo non è cambiata, ma secondo numerose ricerche e inchieste giornalistiche sarebbe addirittura peggiorata. In aprile, il New York Times ha anticipato che la Commissione potrebbe comminare una multa da oltre 1 miliardo di euro, innescando una nuova fase di tensioni tra Bruxelles e Washington.
La lettera dei deputati europei si inserisce proprio in questo vuoto normativo e comunicativo, chiedendo risposte precise e immediate.
Le accuse: bias algoritmico, manipolazione politica, opacità
“Ricerche indicano un possibile bias algoritmico su X che favorirebbe in modo sproporzionato contenuti dell’estrema destra e amplificherebbe i post del proprietario della piattaforma.”
E non si tratta solo di Stati Uniti. La lettera denuncia anche interferenze nei processi elettorali europei, citando:
il sostegno pubblico di Musk al partito tedesco di estrema destra AfD;
una campagna di disinformazione contro il primo ministro britannico Keir Starmer;
la diffusione virale di fake news durante i disordini a Dublino nel novembre 2023;
la difesa pubblica di Musk del candidato romeno di estrema destra Călin Georgescu, squalificato per interferenze russe.
Tutti episodi che, messi in fila, delineano un pattern molto chiaro: X non è più solo una piattaforma neutrale, ma uno strumento che può distorcere il discorso pubblico e minare i processi democratici.
Le richieste: risposte concrete dalla Commissione
I deputati non si limitano a esprimere preoccupazione: chiedono risposte dettagliate e operative su otto punti fondamentali. Tra questi:
Trasparenza algoritmica – che risultati sono emersi dalle indagini tecniche inviate a X a gennaio 2025?
Valutazione dei rischi elettorali – è stato consegnato il report di rischio previsto dal DSA? Quali misure si intendono adottare prima del prossimo ciclo elettorale?
Misure provvisorie – la Commissione intende intervenire con sanzioni o sospensioni se X continuerà a disattendere le richieste?
Audit indipendente – l’audit esterno previsto è già stato avviato? Quando saranno resi pubblici i risultati?
Tempistiche procedurali – qual è il calendario previsto per i prossimi passaggi, fino a una decisione finale?
A queste domande se ne aggiungono altre di carattere generale, tutte volte a capire se la Commissione sia davvero pronta a far rispettare le regole del Digital Services Act.
Una questione che riguarda la tenuta democratica
La lettera si chiude con un richiamo forte ai principi fondanti dell’Unione Europea:
“L’integrità dei nostri processi democratici e l’applicazione delle normative europee sono in gioco. Confidiamo che la Commissione agirà con decisione per difendere questi principi.”
Difficile non condividere questo appello. Dopo 500 giorni di attesa, e con una mole crescente di indizi, inchieste e dati, la credibilità del DSA come strumento di regolazione dipende dalla risposta che Bruxelles sarà in grado di offrire.
In un contesto in cui le piattaforme digitali non sono più solo spazi di espressione, ma strumenti di potere, la richiesta dei deputati europei suona come un richiamo non solo al rispetto della legge, ma alla tutela della democrazia stessa.
Duolingo ha annunciato una svolta “AI-first”: meno collaboratori esterni, più automazione nei processi e nuovi criteri per assunzioni e valutazioni. Un segnale concreto di un cambiamento profondo nel rapporto tra IA e lavoro umano. Cosa comporta davvero questa decisione?
Duolingo, popolare piattaforma per l’apprendimento delle lingue, ha comunicato ai dipendenti un importante cambio di rotta: la società diventerà “AI-first” (cioè darà priorità all’intelligenza artificiale) e smetterà gradualmente di utilizzare collaboratori esterni per i compiti che l’IA è in grado di svolgere.
L’annuncio, diffuso dal co-fondatore e CEO Luis von Ahn in un’email interna poi pubblicata su LinkedIn, sottolinea la necessità di “ripensare gran parte del nostro modo di lavorare” nell’era dell’IA.
In altre parole, i piccoli aggiustamenti ai metodi tradizionali non bastano più. Occorre una revisione più radicale dei processi per sfruttare appieno le nuove tecnologie.
Nella comunicazione ai dipendenti, von Ahn ha delineato alcune misure concrete per guidare questa transizione “AI-first”:
Stop a collaborazioni esterne: Duolingo smetterà di usare collaboratori esterni per le attività che possono essere gestite dall’IA.
IA come requisito nelle assunzioni: l’uso efficace dell’IA diventerà un fattore valutato nelle nuove assunzioni.
Valutazioni di performance con l’IA: l’abilità di utilizzare l’IA inciderà anche sulle revisioni delle performance dei dipendenti esistenti.
Assunzioni solo se l’IA non basta: nuovi inserimenti in organico (headcount) saranno approvati solo se un team non può automatizzare di più il proprio lavoro.
Riorganizzazione dei processi: ogni area dell’azienda lancerà iniziative specifiche per cambiare alla radice il modo di operare, integrando l’IA dove possibile.
Lavoro e intelligenza artificiale, il caso duolingo
Le motivazioni di Duolingo: efficienza e mission aziendale
L’obiettivo dichiarato è piuttosto “rimuovere colli di bottiglia” e liberare il potenziale del personale, permettendo ai team di “concentrarsi su lavoro creativo e problemi reali, non su compiti ripetitivi”. Per riuscirci, l’azienda promette formazione, mentorship e strumenti AI adeguati a tutti i livelli, così che i dipendenti possano aggiornare le proprie competenze.
Dal punto di vista strategico, Duolingo vede nell’IA un mezzo per accelerare la sua mission educativa. “L’IA non è solo un incremento di produttività. Ci aiuta ad avvicinarci alla nostra missione”, afferma von Ahn.
La piattaforma offre corsi in decine di lingue e per insegnare efficacemente ha bisogno di una quantità enorme di contenuti, dagli esercizi alle traduzioni. Creare tutto manualmente richiederebbe anni: “farlo a mano non è scalabile… senza l’IA ci vorrebbero decenni per offrire questi contenuti a tutti i nostri studenti. Abbiamo il dovere di fornire loro questo materiale il prima possibile”.
In quest’ottica, l’adozione di sistemi AI serve a scalare l’offerta didattica in modo rapido, raggiungendo più utenti senza sacrificare la qualità dell’insegnamento. L’azienda paragona questa scelta a quando, nel 2012, decise di puntare tutto sul mobile prima di altri: allora fu la chiave del suo successo, e oggi la nuova piattaforma da cavalcare è l’Intelligenza Artificiale.
La collaborazione con ChatGPT
Negli ultimi anni la società ha integrato diverse soluzioni di IA generativa all’interno della sua app per migliorare l’esperienza utente. Già a marzo 2023, ad esempio, Duolingo ha annunciato una partnership con OpenAI per sfruttare GPT-4, lanciando un piano in abbonamento chiamato Duolingo Max.
Oltre alle funzioni rivolte direttamente agli studenti, Duolingo sta usando l’IA anche dietro le quinte, per creare e tradurre i contenuti didattici. Un portavoce dell’azienda ha confermato che Duolingo ha intensificato gli investimenti in strumenti di AI generativa come ChatGPT e ora li impiega per produrre contenuti a un ritmo molto più veloce di prima.
In concreto, la società ha iniziato a generare automaticamente frasi, dialoghi ed esercizi nella lingua di destinazione, attività che in precedenza richiedevano il lavoro paziente di traduttori e linguisti umani. L’IA viene addestrata sul vasto patrimonio di dati linguistici di Duolingo e poi supervisionata da esperti in carne e ossa per assicurare che le traduzioni e gli esempi siano accurati e naturali.
Proprio questa automazione ha consentito a Duolingo di ridurre il bisogno di traduttori umani esterni, aprendo la strada al taglio dei contratti annunciato di recente. Von Ahn ha citato come “una delle migliori decisioni recenti” quella di aver sostituito un processo lento e manuale di creazione dei contenuti con uno alimentato dall’IA, grazie al quale si possono proporre materiali che prima avrebbero richiesto anni di lavoro.
Inoltre, l’IA sta sbloccando nuove funzionalità: il CEO ha rivelato che stanno sviluppando funzionalità innovative (come una modalità “Video Call” educativa) che prima erano “impossibili da realizzare senza le capacità dell’AI”.
Impatto su lavoratori interni ed esterni: nuove competenze
La scelta di abbracciare l’AI-first ha ricadute dirette sul personale di Duolingo, sia interno che esterno.
Sul fronte degli impiegati a tempo indeterminato, l’azienda assicura che nessuno perderà il posto in favore di un robot. L’idea è di far evolvere i ruoli, non di eliminarli. Anzi, i vertici insistono che i loro “Duos” (dipendenti) sono e saranno valorizzati, liberati dai compiti noiosi e supportati nel l’apprendimento delle nuove tecnologie.
È chiaro che le nuove assunzioni saranno più selettive. D’ora in poi chi entra in azienda dovrà dimostrare di saper sfruttare l’IA come acceleratore del proprio lavoro, poiché questa abilità diventa un’aspettativa di base (lo stesso concetto è stato ribadito di recente anche dal CEO di Shopify).
Anche le valutazioni del personale esistente cambieranno. Usare l’IA efficacemente farà parte dei criteri di performance, spingendo tutti a integrare questi strumenti nel flusso di lavoro quotidiano. In sintesi, in Duolingo il collaboratore ideale è destinato a diventare un “operatore aumentato dall’IA”, capace di moltiplicare la propria produttività affiancando al proprio know-how umano le capacità delle macchine.
Diverso è il discorso per i lavoratori esterni e collaboratori a progetto, che sono i primi a subire i tagli.
Ciò non toglie che il risultato sia stato un alleggerimento dell’organico esterno: meno traduttori umani e più traduzioni affidate all’IA.
Un ex-collaboratore, che aveva lavorato per Duolingo per cinque anni, ha raccontato in un post diventato virale su Reddit come il suo team di quattro traduttori sia stato ridotto a due persone dopo questa svolta strategica.
I pochi traduttori rimasti ora hanno principalmente il compito di revisionare i contenuti generati dall’intelligenza artificiale, controllando che siano accettabili e correggendo eventuali errori.
Questa testimonianza illustra bene la nuova situazione. L’IA produce la bozza iniziale di esercizi e traduzioni, mentre l’occhio umano interviene come supervisore di qualità.
Per i lavoratori coinvolti, interni o esterni che siano, la transizione non è indolore. Adattarsi significa acquisire competenze completamente nuove, cambiare abitudini e — comprensibilmente — affrontare l’incertezza sul proprio futuro professionale.
Duolingo insiste che il cambiamento sarà positivo e di stimolo per i dipendenti, ma c’è chi teme che, in prospettiva, una volta superati i “colli di bottiglia” iniziali, l’azienda possa scoprire di poter fare a meno di un numero crescente di persone. Del resto, la politica sulle nuove assunzioni (“prima prova con l’IA, poi eventualmente aggiungi una persona”) fa intuire che la crescita dell’organico umano rallenterà, puntando invece su soluzioni automatizzate.
Luis von Ahn, cofounder e CEO Duolingo
Reazioni e opinioni: entusiasmo per l’innovazione o rischio per il lavoro?
La notizia della svolta AI-first di Duolingo ha scatenato dibattiti accesi all’esterno, tra esperti del settore, utenti e gli stessi collaboratori coinvolti. Sui social media e forum online molte voci si sono levate criticando l’azienda per la decisione di sostituire i traduttori con “robot”.
Nel thread Reddit citato in precedenza, la maggioranza dei commenti esprimeva sdegno per l’operato di Duolingo, mostrando solidarietà verso i contrattisti lasciati a casa. Alcuni utenti hanno accusato la piattaforma di tradire la propria filosofia, dal momento che Duolingo ha sempre fatto leva su contenuti creati (e voci registrate) da madrelingua umani per garantire autenticità nelle lezioni.
Affidarsi ora alle traduzioni automatiche potrebbe, secondo questi critici, indebolire la qualità didattica e l’affidabilità percepita del prodotto.
Altri osservatori, pur dispiaciuti per la perdita di posti di lavoro, hanno inserito la vicenda in un contesto più ampio. “Vedremo storie del genere quasi ogni giorno. Renderà tutto molto più difficile per le persone che cercano di costruirsi una carriera” commenta amaramente un utente, alludendo al fatto che il trend di rimpiazzare lavoratori con alternative più veloci ed economiche basate sull’IA sta diventando generalizzato.
Il dibattito è aperto. Da un lato c’è chi accoglie con entusiasmo l’uso dell’IA per aumentare l’efficienza e liberare la creatività umana dai lavori noiosi; dall’altro c’è chi mette in guardia dai rischi sociali (disoccupazione, precarizzazione, perdita di competenze artigianali) e dai limiti attuali dell’IA stessa, che non può ancora sostituire pienamente il giudizio e la sensibilità umana.
Implicazioni per il settore tech e il futuro del lavoro con l’IA
L’approccio “AI-first” sposato da Duolingo solleva interrogativi importanti sul futuro del lavoro nell’industria tecnologica (e non solo). Se un tempo l’automazione minacciava soprattutto impieghi manuali o di catena di montaggio, l’avanzata dell’IA generativa punta direttamente a mansioni cognitive e creative, come scrivere testi, tradurre, programmare, progettare grafica e persino prendere decisioni basate su dati.
Il caso Duolingo mostra che le aziende sono sempre più disposte a ridefinire i ruoli professionali attorno a ciò che l’IA sa fare meglio, assegnando alle persone compiti dove il valore aggiunto umano è insostituibile (strategia, creatività, empatia, supervisione qualitativa).
In quest’ottica, potremmo assistere alla nascita di nuovi profili professionali, come l’esperto in prompt e IA (il cui lavoro è guidare e controllare i sistemi intelligenti), ma anche alla scomparsa graduale di figure tradizionali qualora le macchine dimostrino di poterle rimpiazzare in modo soddisfacente.
Per il settore tech, abbracciare l’IA in modo così pervasivo può portare un salto di produttività e innovazione. Duolingo, ad esempio, conta di sviluppare funzionalità didattiche rivoluzionarie e di moltiplicare i contenuti offerti grazie all’IA, guadagnando un vantaggio competitivo.
Anche altre aziende che adotteranno un modello simile potrebbero riuscire a offrire prodotti migliori a costi minori, beneficiando di algoritmi instancabili che lavorano 24/7. Si delinea un possibile scenario in cui le aziende “snelle” potenziate dall’IA diventano la norma: organici ridotti all’osso ma altamente specializzati, coadiuvati da un esercito silenzioso di agenti artificiali. Questo potrebbe mettere pressione sulle aziende più tradizionali, costrette a tenere il passo per non rimanere escluse dal mercato.
D’altro canto, le implicazioni sociali di questa trasformazione non possono essere ignorate. Se molte imprese seguissero la strada di Duolingo, interi settori potrebbero veder calare la domanda di lavoro umano.
I lavoratori dovranno puntare sempre più sulla formazione continua per acquisire competenze complementari all’IA; le aziende dovranno investire in riqualificazione del personale e gestire con responsabilità le transizioni, evitando approcci puramente estrattivi; le istituzioni potrebbero dover aggiornare le normative sul lavoro e i sistemi di welfare per far fronte a un mondo in cui la carriera di una persona potrebbe essere più volatile e interdipendente dalle disruption tecnologiche.
In conclusione, il “caso Duolingo” offre uno sguardo su ciò che sarà sul futuro prossimo. Da una parte, l’innovazione spinta dall’IA promette strumenti educativi più efficaci, servizi più accessibili e un mondo in cui le persone sono libere dai lavori più tediosi. Dall’altra, il rapporto fra lavoro e IA entra in una fase delicata, in cui sarà fondamentale trovare un nuovo equilibrio. La sfida è valorizzare l’apporto insostituibile dell’essere umano pur accogliendo i benefici dell’automazione.
L’equilibrio non è scontato e si costruirà attraverso scelte come quelle di Duolingo, che funge da laboratorio di questa convivenza tra lavoratori in carne e ossa e intelligenze artificiali.
Il modo in cui l’azienda gestirà questa transizione – e come risponderanno i suoi utenti e dipendenti – potrà fornire indicazioni preziose a tutte le realtà che si apprestano ad affrontare la medesima sfida.
L’UE introduce dal 20 giugno 2025 un’etichetta energetica per smartphone e tablet. Informazioni su efficienza, durata, riparabilità e resistenza utili per acquisti più consapevoli.
Dal prossimo 20 giugno 2025, in tutta l’Unione Europea entrerà in vigore una nuova etichetta energetica dedicata a smartphone e tablet.
Si tratta di una novità importante che avvicina i dispositivi mobili agli standard già adottati da tempo per gli elettrodomestici, introducendo criteri chiari su efficienza energetica, durata della batteria, riparabilità e resistenza.
Una misura attesa, per la verità, che punta a promuovere scelte di acquisto più consapevoli e a favorire la sostenibilità nell’uso quotidiano della tecnologia.
Vediamo insieme di cosa si tratta.
Etichetta energetica anche per i dispositivi mobili
L’adozione di una etichetta energetica nasce da una precisa esigenza, vale a dire quella rendere più trasparente per i consumatori la qualità dei dispositivi mobili dal punto di vista energetico e ambientale.
Fino ad oggi, smartphone e tablet venivano valutati principalmente in base alle loro caratteristiche prestazionali, come velocità, memoria, fotocamere, mentre elementi come la durata della batteria, la possibilità di riparazione o la resistenza fisica passavano in secondo piano.
Nuova etichetta energetica per smartphone e tablet
Etichetta energetica, quali i dispositivi mobili
Con la nuova etichetta, invece, saranno questi aspetti a essere messi in evidenza, permettendo agli utenti di compiere scelte più informate.
La nuova normativa riguarda smartphone, tablet e telefoni cordless con schermo fino a 17,4 pollici. Sono esclusi i dispositivi con schermi flessibili e i tablet basati su Windows, che saranno oggetto di regolamentazioni specifiche future.
Cosa indica la nuova etichetta energetica
Proprio come per frigoriferi o lavatrici, l’etichetta mostrerà una classe di efficienza energetica che va dalla A (massima efficienza) alla G (minima efficienza). Ma ci sarà molto di più.
Le informazioni riportate comprenderanno:
autonomia della batteria, indicata in ore e minuti per ciascun ciclo di carica completo;
durata della batteria nel tempo, ovvero quanti cicli completi il dispositivo può sostenere mantenendo almeno l’80% della capacità iniziale;
indice di riparabilità, che valuta quanto sia facile riparare il dispositivo;
resistenza a cadute, testata su urti accidentali;
protezione da polvere e acqua, specificata tramite l’indice di protezione IP;
QR code, che rimanderà a una scheda più dettagliata nel registro europeo EPREL.
Oltre all’etichetta, i produttori dovranno rispettare nuovi criteri di progettazione ecocompatibile, tra cui garantire batterie più durevoli, assicurare la disponibilità di pezzi di ricambio e rendere accessibili gli aggiornamenti software per almeno cinque anni dalla fine della vendita del modello.
Smartphone nuova etichetta energetica
Scala delle classi di efficienza energetica da A a G.
La classe di efficienza energetica di questo prodotto.
Durata della batteria per ciclo, in ore e minuti per ogni carica completa.
Classe di affidabilità in caduta libera ripetuta.
Durata della batteria in cicli.
Classe di riparabilità.
Grado di protezione dall’ingresso di acqua.
Quando entrerà in vigore
La nuova etichettatura sarà obbligatoria a partire dal 20 giugno 2025.
Da quel momento, tutti i dispositivi immessi sul mercato europeo dovranno riportare la nuova etichetta, pena l’impossibilità di essere venduti legalmente nei paesi membri.
Un cambiamento che riguarda non solo i grandi produttori, ma l’intero mercato dei dispositivi mobili.
Perché è stata introdotta
Alla base della decisione c’è un obiettivo chiaro: promuovere la sostenibilità e favorire l’economia circolare.
Ormai lo sappiamo bene, gli smartphone e i tablet sono diventati oggetti di uso quotidiano. Ma la loro produzione, il loro consumo e il loro smaltimento generano un impatto ambientale significativo.
Secondo la Commissione Europea, rendere i dispositivi più efficienti, durevoli e riparabili può ridurre sensibilmente l’impronta ecologica, oltre a contenere la produzione di rifiuti elettronici.
Fornire informazioni trasparenti significa anche ridurre l’obsolescenza programmata. E incentivare i consumatori a considerare la longevità come un fattore decisivo, non solo le caratteristiche più appariscenti.
Cosa cambia per i consumatori
Per i consumatori la nuova etichetta rappresenterà uno strumento in più per valutare meglio la qualità del prodotto, andando oltre le sole specifiche tecniche.
Scegliere uno smartphone o un tablet non sarà più solo questione di fotocamere migliori o schermi più luminosi. Dal 20 giugno in poi si potrà capire anche quanto durerà la batteria nel tempo, quanto sarà facile ripararlo in caso di guasto e quanto resisterà agli imprevisti della vita quotidiana.
Inoltre, avere informazioni più chiare potrà anche aiutare a risparmiare. Infatti, un dispositivo più efficiente e duraturo richiede meno sostituzioni e meno spese nel tempo.
L’introduzione della nuova etichetta energetica per smartphone e tablet è molto più di una questione di trasparenza commerciale. Potrebbe essere davvero una svolta culturale.
Siamo di fronte ad un cambiamento di paradigma nell’approccio alla tecnologia, orientato non solo all’innovazione ma anche alla responsabilità ambientale e sociale.
Dal 2025, ogni scelta tecnologica avrà un peso ancora più concreto sulle nostre abitudini e sull’ambiente che ci circonda.
Una trasformazione apparentemente poco incisiva, ma che promette di cambiare il modo in cui valutiamo i dispositivi che ci accompagnano ogni giorno.
[L’immagine di copertina è stata creata da Franz Russo utilizzando il modello di intelligenza artificiale generativa Chatgpt-4o]
Un pesante blackout ha colpito in modo particolare la Spagna e il Portogallo, in misura minore il sud della Francia. Pesanti disagi ai servizi digitali e alle infrastrutture. Adesso si cerca di scoprire le cause tra guasto o attacco cyber. Intanto sarebbe meglio investire su infrastrutture resilienti.
Nella giornata di oggi, 28 aprile 2025, un blackout di grandi proporzioni straordinarie a colpito la Spagna, il Portogallo e in misura minore il sud della Francia, lasciando milioni di cittadini senza elettricità e generando disservizi estesi, soprattutto nell’ambito dei servizi digitali e delle infrastrutture critiche.
Il blackout ha interessato l’intera Spagna continentale, il Portogallo e alcune regioni del sud della Francia come l’Occitania.
Il blackout ha avuto un impatto immediato sulla Rete e sulle telecomunicazioni. In molte aree spagnole e portoghesi la rete mobile è andata completamente offline, rendendo impossibili sia le chiamate vocali sia il traffico dati.
Le connessioni fisse hanno subito blackout o forti rallentamenti, con pesanti ripercussioni su attività commerciali, media, e servizi online essenziali.
Un pesante blackout ha colpito la Spagna e il Portogallo
In tilt anche i sistemi di pagamenti
Anche i sistemi di pagamento elettronico, bancomat e POS sono andati in tilt, obbligando molti esercizi commerciali ad accettare esclusivamente pagamenti in contanti.
Il blackout ha paralizzato i trasporti pubblici. Metropolitane evacuate a Madrid, Barcellona e Valencia; treni bloccati su tutta la rete ferroviaria; traffico cittadino in tilt per semafori fuori uso.
Negli aeroporti di Madrid-Barajas e Lisbona si sono registrati ritardi e cancellazioni di voli, con operazioni ridotte all’essenziale grazie ai generatori di emergenza.
Gli ospedali, sebbene equipaggiati con generatori, hanno dovuto sospendere interventi non urgenti e concentrarsi sui servizi di emergenza.
Ipotesi sulle cause: guasto o attacco informatico?
Le autorità spagnole e portoghesi stanno ancora indagando.
L’ipotesi prevalente riguarda un guasto tecnico, ma non si esclude un possibile attacco informatico.
Cosa accade ai servizi web e all’infrastruttura digitale durante un blackout
In eventi di blackout prolungato, i servizi digitali si bloccano a cascata. I data center possono resistere solo per un tempo limitato grazie ai sistemi UPS e ai generatori.
In ogni caso, le reti di telecomunicazione dipendono fortemente dalla disponibilità costante di energia. Quando la rete primaria cede, anche le torri cellulari, le centrali dati e i nodi di rete si spengono progressivamente.
A questo si aggiungono i problemi alla catena logistica del digitale: senza elettricità, è impossibile mantenere operativi servizi cloud, streaming, e-commerce e infrastrutture pubbliche digitalizzate.
Come agire per ridurre i disagi
Affrontare blackout estesi richiede una strategia articolata:
Ridondanza energetica: garantire una rete distribuita di generatori e sistemi UPS non solo nei data center, ma anche nei nodi di rete più periferici.
Piani di disaster recovery: le aziende e le istituzioni devono disporre di protocolli chiari per la gestione delle emergenze digitali.
Cybersecurity avanzata: proteggere gli impianti critici da attacchi informatici è fondamentale per ridurre i rischi di blackout indotti.
Formazione e cultura della resilienza: formare operatori e cittadini su come reagire efficacemente in caso di blackout.
Il blackout di oggi, in Spagna, Portogallo e Francia, rappresenta una drammatica conferma della fragilità delle nostre infrastrutture digitali.
Una fragilità che richiede un ripensamento serio delle strategie di resilienza energetica e digitale, in un contesto sempre più interconnesso e vulnerabile.
Musk prevede di ridurre il suo ruolo al DOGE per Tesla, e ora i profitti crollano (-71%). Con l’appoggio di Trump non molla. La realtà rischia di frenare i suoi sogni marziani.
Elon Musk ha annunciato che ridurrà il suo impegno nel Dipartimento per l’Efficienza Governativa (DOGE), l’ente voluto da Donald Trump per snellire la burocrazia statunitense.
Dietro questi numeri si nasconde anche il peso delle scelte e dell’atteggiamento di Musk, sempre più al centro di polemiche per le sue prese di posizione politiche e il suo uso, a volte spregiudicato, della sua piattaforma X.
Val la pena analizzare i fatti e capire cosa sta succedendo.
Musk, il passo indietro dal dipartimento DOGE
Durante una conference call con gli investitori di Tesla, Musk ha dichiarato che il suo lavoro al DOGE è “quasi completato” e che, a partire da maggio 2025, dedicherà solo uno o due giorni a settimana all’ente governativo, tornando a focalizzarsi su Tesla, SpaceX e X.
Secondo Reuters, Musk ha sottolineato che il suo ruolo di “dipendente governativo speciale” scadrà a fine maggio, dopo i 130 giorni previsti dal suo incarico.
La decisione non sorprende: il DOGE, guidato da Musk e dall’imprenditore Vivek Ramaswamy, ha già implementato riforme radicali, con tagli per oltre 140 miliardi di dollari, anche se alcune stime sono controverse.
Già negli ultimi giorni, Politico aveva riportato indiscrezioni secondo cui Trump era pronto a ridimensionare il ruolo di Musk, più orientato a diventare un consigliere informale.
La Casa Bianca e Musk avevano smentito un’uscita immediata, ma le pressioni degli investitori di Tesla, preoccupati per il calo delle vendite (-13% nel primo trimestre), sembrano aver spinto Musk a fare un passo indietro. “Tesla ha bisogno di me ora più che mai”, ha detto Musk, come riportato da Bloomberg.
Elon Musk riduce il suo ruolo al DOGE mentre Tesla crolla
Musk e il crollo dei profitti di Tesla, i numeri
Nel frattempo, i numeri parlano chiaro e non sono incoraggianti.
Tesla ha chiuso il primo trimestre del 2025 con un utile netto di 409 milioni di dollari, in calo del 71% rispetto agli 1,4 miliardi dello stesso periodo del 2024. I ricavi sono scesi del 9%, attestandosi a 19,3 miliardi di dollari.
Sempre secondo Reuters, il calo è dovuto a una combinazione di fattori: una domanda globale più debole per i veicoli elettrici, tagli aggressivi ai prezzi per stimolare le vendite e un aumento delle spese operative per progetti di intelligenza artificiale e robotica, come il robot Optimus e la guida autonoma.
La concorrenza, con rivali come il cinese BYD in forte ascesa, ha fatto il resto.
Musk e il suo atteggiamento sempre più polarizzante
L’immagine di Musk, sempre più polarizzante, potrebbe aver contribuito a generare questo momento difficile per Tesla.
Negli ultimi mesi, come ben sappiamo, il CEO ha fatto parlare di sé non solo per le sue imprese imprenditoriali, ma per una serie di comportamenti e dichiarazioni che hanno sollevato critiche in tutto il mondo.
Il caso più eclatante risale al 20 gennaio 2025, durante l’insediamento di Trump, quando Musk ha compiuto un gesto, braccio teso dopo essersi battuto il petto, interpretato da molti come un saluto fascista o nazista.
Media come Times of Israel hanno riportato le reazioni indignate, mentre l’Anti-Defamation League ha definito il gesto “maldestro” ma non intenzionalmente nazista. Musk, su X, ha respinto le accuse, parlando di “trucchi sporchi” e spiegando che voleva solo “dare il cuore al pubblico”. Eppure, il gesto è stato celebrato da gruppi estremisti come Blood Tribe, alimentando le polemiche.
Durante una diretta su X con la leader di AfD Alice Weidel, non ha contraddetto teorie revisioniste su Hitler, suscitando ulteriori critiche. La sua gestione di X, trasformata in un megafono per idee di destra e teorie controverse, ha alienato utenti e istituzioni.
Per citarne qualcuno, la vicepremier spagnola Yolanda Díaz, ad esempio, ha abbandonato la piattaforma in segno di protesta, mentre la Commissione Europea ha messo sotto osservazione X per possibili violazioni del Digital Services Act.
Questi episodi hanno avuto un impatto sulla percezione anche di Tesla. Come riportato da Reuters, il brand è fortemente associato alla figura di Musk, e le accuse di antisemitismo (come la condivisione di teorie cospirative su George Soros nel 2023) e il flirt con l’estrema destra hanno allontanato consumatori e investitori sensibili a questi temi.
“Il comportamento di Musk sta diventando un rischio per Tesla“, ha dichiarato un analista di Wedbush Securities a Bloomberg. La fiducia nel marchio ne ha risentito, soprattutto in mercati chiave come l’Europa, dove le polemiche politiche di Musk sono seguite con attenzione.
Cosa attendersi da Musk ora
La decisione di Musk di ridimensionare il suo ruolo al DOGE è un segnale che il tycoon è consapevole delle difficoltà di Tesla. In ogni caso, il danno reputazionale e le sfide di mercato non si risolveranno dall’oggi al domani.
La concorrenza nel settore delle auto elettriche è sempre più agguerrita, e Tesla deve ritrovare il suo slancio innovativo per recuperare terreno.
Musk, dal canto suo, dovrà dimostrare di poter bilanciare le sue ambizioni politiche con la leadership aziendale, evitando passi falsi che potrebbero ulteriormente erodere la fiducia degli stakeholder. Impresa quasi impossibile.
Intanto, il dibattito sul suo atteggiamento non accenna a placarsi. È sicuramente Musk a portare Tesla dov’è oggi, ma è anche la sua personalità controversa a metterla a rischio.
Di fronte ad una situazione del genere, c’è da star sicuri che Musk prenderà qualche provvedimento di convenienza sul momento. Ma in una prospettiva più ampia, in realtà, è pronto a non indietreggiare in alcun modo.
Orma ha assunto la consapevolezza che il suo ruolo all’interno dell’amministrazione Trump è appoggiato proprio dal presidente Usa. E fin quando questo sostegno c’è, per lui tutto va bene.
Solo che tutto questo, come abbiamo visto, deve fare i conti con la realtà. E Marte è ancora molto lontano dall’essere raggiunto.
La Commissione UE ha inflitto una multa ai due colossi Apple e Meta per aver violato il DMA. Un caso che potrebbe rendere ancora più accese le relazioni tra Usa e UE.
La Commissione Europea ha inflitto oggi una sanzione a due dei più grandi colossi tecnologici Usa.
La Commissione UE multa Apple e Meta in violazione del DMA
Perché Apple e Meta sono multate dalla UE
Nel comunicato ufficiale rilasciato dalla Commissione Europea, si legge che Apple e Meta non avrebbero rispettato l’obbligo previsto dal DMA di offrire agli utenti europei “un servizio equivalente che utilizzi meno dati personali”.
Un obbligo non accessorio, ma centrale nel nuovo impianto normativo, che mira a riequilibrare il rapporto tra i cosiddetti gatekeeper (i grandi intermediari digitali) e gli utenti finali.
Secondo l’analisi della Commissione, Apple avrebbe ostacolato gli sviluppatori nell’informare gli utenti su opzioni di pagamento alternative all’App Store. Ma soprattutto non avrebbe offerto una scelta chiara agli utenti su un sistema che tratti meno i loro dati personali.
Meta, dal canto suo, avrebbe violato lo stesso principio nella recente introduzione dell’abbonamento no ads, che non offrirebbe in modo adeguato un’alternativa che non comporti l’uso estensivo dei dati.
Cos’è il DMA e perché è importante
Il Digital Markets Act è entrato in vigore nel novembre 2022, ma ha iniziato a produrre effetti concreti solo da marzo 2024, quando è entrato in piena applicazione.
Si tratta di una normativa ambiziosa con cui l’Unione Europea mira a regolamentare l’attività dei grandi attori digitali – designati ufficialmente gatekeeper – imponendo loro obblighi chiari in materia di interoperabilità, trasparenza e protezione dei dati personali.
La logica alla base del DMA è semplice. Se pochi attori dominano il mercato digitale europeo, devono rispettare regole più severe per evitare comportamenti anticoncorrenziali e garantire agli utenti finali maggiore libertà di scelta.
In questo contesto, le sanzioni di oggi segnano una svolta. Si tratta delle prime multe effettive basate proprio sulle violazioni del DMA, e potrebbero aprire la strada a un confronto ancora più acceso tra Bruxelles e le big tech americane.
Teresa Ribera
“Le decisioni odierne inviano un messaggio forte e chiaro. Il Digital Markets Act è uno strumento cruciale per liberare potenziale, scelta e crescita, garantendo agli operatori digitali la possibilità di operare in mercati contendibili ed equi. Protegge i consumatori europei e crea condizioni di parità. Apple e Meta non hanno rispettato il DMA”. Sono le parole a commento di Teresa Ribera, Vicepresidente Esecutiva per una Transizione Pulita, Giusta e Competitiva
Le tensioni geopolitiche e l’ombra di Trump
La notizia arriva in un momento già teso nelle relazioni tra Stati Uniti e Unione Europea. I dazi introdotti recentemente dagli USA su alcune esportazioni europee – e le possibili contromisure da parte dell’UE – hanno acceso un clima di scontro commerciale che si intreccia sempre di più con la regolamentazione del digitale.
Proprio in questo clima, Meta – così come altre grandi aziende tecnologiche – avrebbe chiesto nelle ultime settimane l’intervento di Donald Trump, in vista delle elezioni presidenziali USA, affinché eserciti pressione sull’UE per ammorbidire l’applicazione del DMA.
Una mossa che, se confermata, suggerisce un’escalation non solo economica, ma anche politica, nel rapporto tra Bruxelles e Silicon Valley.
Non è un mistero che le big tech abbiano sempre mal digerito l’idea di una regolamentazione europea autonoma. Ma l’approccio dell’UE, soprattutto in ambito digitale, è oggi più determinato che mai.
Henna Virkkunen
“Consentire la libera scelta di aziende e consumatori è al centro delle norme stabilite dal Digital Markets Act. Ciò include garantire che i cittadini abbiano il pieno controllo su quando e come i loro dati vengono utilizzati online e che le aziende possano comunicare liberamente con i propri clienti. Le decisioni adottate oggi dimostrano che sia Apple che Meta hanno privato i propri utenti di questa libera scelta e sono costrette a modificarne il comportamento. Abbiamo il dovere di proteggere i diritti dei cittadini e delle imprese innovative in Europa e mi impegno pienamente per raggiungere questo obiettivo”.
Henna Virkkunen, Vicepresidente esecutivo per la sovranità tecnologica, la sicurezza e la democrazia
Cosa potrebbe succedere adesso
Le sanzioni comminate oggi rappresentano un segnale forte e inequivocabile. L’Unione Europea è disposta ad applicare il DMA fino in fondo.
Apple e Meta, con 60 giorni di tempo per adeguarsi, potrebbero fare ricorso, certo, ma difficilmente questo rallenterà la macchina regolatoria europea. Anzi, è probabile che altre indagini, tuttora in corso, possano portare presto a ulteriori sanzioni nei confronti di Alphabet (Google), Amazon e TikTok.
Dal canto loro, gli Stati Uniti potrebbero interpretare questo come un attacco diretto alle aziende americane, alimentando le frizioni commerciali in corso.
E con Trump alla Casa Bianca, la questione DMA potrebbe diventare uno dei nodi più delicati nelle relazioni transatlantiche.
Insomma, ci troviamo al primo vero banco di prova dell’efficacia del Digital Markets Act. È anche una dimostrazione che l’UE, almeno sul fronte della regolamentazione digitale, non ha intenzione di restare a guardare.
Vedremo come si svilupperà questa vicenda nei prossimi giorni.
Addio a Papa Francesco, primo Papa dell’era digitale, ha saputo usare il web e i social per comunicare con semplicità, autenticità e visione fino all’ultimo.
Nel giorno di Pasquetta, il 21 aprile 2025, muore Papa Francesco. Quello che possiamo definire, senza esagerare, il primo Papa dell’era dei social media.
Nonostante il primo account social — @Pontifex su Twitter — fosse stato inaugurato da Benedetto XVI nel dicembre 2012, è stato poi lui, Papa Francesco, a dare voce e corpo alla comunicazione digitale. A usare davvero le piattaforme per parlare al mondo.
Si è affacciato sul mondo social con naturalezza, semplicità, coerenza. Ha compreso, forse prima di molti altri, che per parlare davvero al mondo — soprattutto ai più giovani — bisognava saper ascoltare, dialogare, comunicare. Anche online.
Durante tutto il pontificato, non ha mai avuto paura degli strumenti digitali. Non li ha mai demonizzati. Anzi, li ha accolti e benedetti. Letteralmente.
“Internet può offrire maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti”, aveva detto nel 2014. E non a caso definì il web “un dono di Dio”.
Un dono, certo, se usato responsabilmente. Un mezzo potente per costruire ponti, non per erigere muri.
“L’uso dei media digitali, in particolare dei social media, ha sollevato una serie di gravi questioni etiche che richiedono un giudizio saggio e attento da parte dei comunicatori e di tutti coloro che hanno a cuore l’autenticità e la qualità delle relazioni umane. L’educazione ai media, la creazione di una rete tra i media cattolici e il contrasto alle menzogne e alla disinformazione”.
Parole che dimostrano quanto fosse profondamente sensibile ai temi etici legati alla comunicazione digitale.
E quanto credesse in un uso consapevole degli strumenti, per contrastare le derive della disinformazione.
Addio Papa Francesco, primo vero papa dell’era dei social media
Il primo Angelus “social” e il primo tweet
Lo aveva capito fin da subito, Papa Francesco.
Nel marzo 2013, a pochi giorni dalla sua elezione, il primo Angelus fu anche il primo Angelus davvero “social”. Le sue parole, pronunciate in Piazza San Pietro con quella forza gentile che lo ha sempre contraddistinto, furono condivise, commentate, rilanciate. In rete. In tempo reale.
E pochi giorni dopo arrivò anche il suo primo tweet ufficiale: semplice, diretto, umano. Segnava l’inizio di un nuovo modo di comunicare il messaggio della Chiesa. Nessuna distanza. Nessun filtro. Solo parole che parlavano al cuore.
L’hashtag #GiubileodellaMisericordia fu tra i più usati in Italia nei giorni dell’apertura della Porta Santa: oltre 17.500 conversazioni in poche ore.
Era la prova concreta di quanto il messaggio di Papa Francesco trovasse eco nel linguaggio dei nostri tempi.
Un Papa amato sul web
Come raccontato proprio qui su questo blog, nel 2014 Papa Francesco era stato il personaggio più amato del web.
Con oltre 49 milioni di citazioni online tra marzo e novembre 2013, e una media di 1,7 milioni di ricerche mensili su Google.
Non era solo popolarità. Era una sintonia nuova con chi cercava un messaggio di speranza, di misericordia, di pace. Anche online.
Un messaggio fino all’ultimo
Papa Francesco ha continuato a comunicare fino all’ultimo. Con lo stesso stile. Con la stessa voce: chiara, gentile, accogliente. Ha parlato ai giovani. Ha parlato agli esclusi. Ha parlato a chi è lontano dalla Chiesa, ma non dalla vita.
E ha usato anche il web e i social media per farlo.
Con umiltà, senza retorica, senza paura. Con autenticità.
La sua eredità digitale e umana
Il ricordo di Papa Francesco, oggi che ci lascia, è anche il ricordo di un modo nuovo di essere presenti nel mondo. Di una comunicazione che ha saputo incontrare l’altro anche attraverso uno schermo.
Non è stato solo il primo Papa dell’era dei social. È stato il primo a viverla davvero, con coerenza e visione.