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Sorpasso dello streaming sulla Tv, un passaggio epocale

Sorpasso dello streaming sulla Tv, un passaggio epocale

Secondo Nielsen, a maggio 2025 lo streaming ha superato per la prima volta la TV tradizionale negli USA, raggiungendo quasi il 45% del tempo di visione. Un sorpasso storico che ci dice molto più di quanto sembri: cambia il modo in cui ci informiamo, ci intratteniamo.

Negli ultimi anni, il modo in cui fruiamo dei contenuti video è cambiato radicalmente.

Secondo gli ultimi dati Nielsen, a maggio 2025 lo streaming ha rappresentato il 44,8% del tempo totale trascorso davanti allo schermo negli Stati Uniti. Per la prima volta, ha superato la somma delle due principali forme di televisione tradizionale: via cavo e in chiaro.

Un dato che non lascia spazio a dubbi: lo streaming non è più un’alternativa. È diventato il modo principale con cui le persone si informano, si intrattengono e scelgono cosa vedere.

Ma cosa significa davvero questo sorpasso?

Significa che non guardiamo più la TV come una volta. E non si tratta solo di tecnologia. È in atto un cambio culturale profondo. L’utente oggi è protagonista, sceglie quando, come e cosa guardare. Non esiste più il vincolo del palinsesti; non c’è più l’attesa per il programma delle 21. O delle 20:30 per chi lo ricorda. Tutto è on demand. Sempre.

Non è un caso che le piattaforme più popolari, da YouTube a Netflix, da Twitch a TikTok, siano diventate nel tempo ecosistemi di attenzione, capaci di trattenere gli utenti per ore grazie a un flusso continuo e personalizzato di contenuti.

Sorpasso dello streaming sulla Tv, un passaggio epocale
Sorpasso dello streaming sulla Tv, un passaggio epocale

E questa trasformazione non riguarda solo l’intrattenimento.

Sempre più persone si informano tramite live streaming, notizie commentate in diretta, creator che costruiscono formati originali dove informazione e opinione si fondono. La differenza tra chi fa TV e chi fa streaming è ormai sempre più sottile. In molti casi, è del tutto svanita.

Non è più la TV a dettare il tempo dell’informazione o del racconto. È lo streaming a dettare il tempo dell’attenzione.

Un tempo si diceva “ci vediamo in TV”. Oggi si dice “seguimi in diretta” o “trovi tutto sul mio canale”.

È il trionfo della logica personalizzata, ma anche della disintermediazione portata forse all’estremo.

I creator parlano direttamente alle community, saltando tutta la filiera editoriale classica. E in questo scenario, la TV tradizionale – se non evolve – rischia di diventare marginale.

Naturalmente non tutti gli utenti sono migrati completamente. I contenuti sportivi in diretta e gli eventi di massa continuano ad avere un peso in TV. Ma anche lì, lo streaming avanza. Basti pensare a quanto sia centrale oggi Amazon Prime Video per il calcio o le mosse aggressive di Disney+ per accaparrarsi diritti sportivi.

In questo scenario, resta da capire se questo sorpasso è solo numerico o se diventerà strutturale, anche nel modo in cui raccontiamo il mondo.

Perché lo streaming è veloce, adattivo, iper-personalizzato. Ma rischia anche di essere più frammentato, più polarizzato, più schiavo dell’algoritmo.

La sfida oggi non è solo quella dell’audience. È la sfida della qualità. Se il tempo dell’attenzione si è spostato sulle piattaforme, la responsabilità di chi le popola è ancora più grande.

Vi invito ad ascoltare l’episodio sul mio canale YouTube, che vi invito a seguire, e anche su Spotify che trovate qui sotto.

Ecco il Codice di condotta Influencer, multe fino a 600 mila euro

Ecco il Codice di condotta Influencer, multe fino a 600 mila euro

Agcom ha approvato il primo Codice di condotta Influencer. Si pongono regole chiare, obblighi di trasparenza, tutela dei minori. Sono previste sanzioni fino a 600 mila euro per chi viola le norme.

L’Agcom ha approvato il nuovo Codice di condotta Influencer. Si tratta di un passaggio importante nel panorama digitale italiano, per non dire atteso.

L’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha deciso di intervenire ponendo in essere regole precise per mettere ordine in un settore, quello degli influencer, cresciuto rapidamente, ma spesso percepito come poco trasparente.

A quali influencer si rivolge il Codice Condotta

Le nuove disposizioni riguarderanno specificamente quegli influencer che hanno una notevole capacità di coinvolgimento sulla propria community, identificati chiaramente da Agcom come coloro che superano i 500.000 follower; oppure raggiungono almeno un milione di visualizzazioni mensili su piattaforme social o di video sharing.

La scelta di queste soglie evidenzia una chiara volontà di incidere direttamente sui soggetti più rilevanti, lasciando però aperta la discussione su cosa accadrà ai micro-influencer, spesso altrettanto incisivi ma esclusi, per ora, da questo primo intervento.

Gli Influencer rilevanti, secondo il nuovo regolamento, avranno un termine di sei mesi per iscriversi a un apposito elenco ufficiale istituito proprio da Agcom. Un passaggio burocratico ma importante. Per la prima volta, infatti, si definisce in modo formale chi svolge effettivamente il ruolo di influencer e con quali responsabilità.

Responsabilità è infatti la parola chiave del nuovo Codice.

Ecco il Codice di condotta Influencer, multe fino a 600 mila euro
Ecco il Codice di condotta Influencer, multe fino a 600 mila euro

Gli Influencer e la Responsabilità

Agcom equipara formalmente gli influencer più seguiti a emittenti televisive dal punto di vista editoriale. Un accostamento non casuale che implica precise responsabilità nei contenuti condivisi, dalla trasparenza pubblicitaria alla tutela dei minori, passando per il contrasto al linguaggio d’odio e il rispetto dei diritti d’autore.

In sostanza, gli influencer non possono più considerarsi semplicemente creatori di contenuti liberi da vincoli editoriali. Al contrario, da oggi devono farsi carico di un ruolo attivo e consapevole nella comunicazione online.

È un passaggio questo che è destinato ad avere un impatto sul settore. Soprattutto dopo i tanti casi degli ultimi anni che hanno portato a questo tipo di intervento.

Codice condotta Influencer, sanzioni fino a 600 mila euro

Le sanzioni previste in caso di violazioni non sono affatto trascurabili, con multe che possono raggiungere i 250.000 euro per le infrazioni generali e addirittura i 600.000 euro se vengono coinvolti i minori.

Per ora l’accoglienza del provvedimento è stata contrastante. Se da un lato l’Unione Nazionale Consumatori ha apprezzato il Codice definendolo un progresso significativo nella lotta alla pubblicità occulta, il Codacons, invece, ha manifestato perplessità sulla soglia dei follower individuata dall’Agcom, ritenendola eccessivamente alta e quindi limitativa.

Sono due modalità di pensiero che in questi giorni stanno emergendo sulle varie conversazioni sulle piattaforme.

Al di là di quello che si pensa, è necessario sottolineare che questo è un passo necessario verso una maggiore maturità e consapevolezza del settore influencer in Italia. Un settore che in alcuni casi ha finito per creare situazioni al limite della correttezza professionale.

Evidentemente, è un’opportunità per riaffermare il principio che essere Influencer, oggi,  comporta precise responsabilità, editoriali e sociali.

Si apre ora una fase nuova nel nostro paese, che col senno di poi sarebbe dovuta iniziare già molto tempo prima.

Ma sarà interessante osservare come influencer, brand e utenti reagiranno a questo cambiamento.

SCHEDA

Codice Influencer Dettaglio
Soglia di applicazione ≥ 500.000 follower o ≥ 1 milione di visualizzazioni/mese
Iscrizione Obbligatoria a un elenco Agcom entro 6 mesi
Regole chiave Trasparenza, anti-odio, tutela minori, diritti autorali
Sanzioni Fino a 250.000 €, fino a 600.000 € in caso di violazione tutela minori
Responsabilità Pari a quella delle emittenti televisive

 


[L’immagine di questo articolo è stata generata artificialmente con il supporto di DALL·E, modello di intelligenza artificiale sviluppato da OpenAI, utilizzata esclusivamente per rappresentare in formato visual il tema trattato]

Meta, X e LinkedIn si oppongono alla richiesta IVA dell’Italia

Meta, X e LinkedIn si oppongono alla richiesta IVA dell’Italia

Meta, X e LinkedIn si oppongono e la questione si fa politica. L’Italia richiede il pagamento l’IVA alle piattaforme digitali, considerando le registrazioni degli utenti come transazioni imponibili.

Nei mesi scorsi, attraverso le autorità competenti in materia, aveva richiesto alle piattaforme digitali il pagamento di Iva arretrata, per un ammontare di oltre 1 miliardo di euro.

Ebbene, così come riportato da Reuters, le big tech proprietarie delle piattaforme digitali, quindi Meta, X e LinkedIn, si sono opposte impugnando la richiesta.

Si tratta di un precedente in quanto per la prima volta il nostro paese non raggiunge un accordo e, di conseguenza, si cerca la sponda Bruxelles per fare in modo che le aziende paghino il dovuto.

Di fatto, questa è una situazione che rischia di inasprire ancora di più i rapporti Usa/UE, già alle prese con la delicata situazione dei Dazi.

La richiesta IVA sulle “transazioni imponibili”

Come noto, in Italia l’IVA si applica su tutti i beni e servizi. Di conseguenza, nel caso delle piattaforme digitali, le autorità fiscali stanno cercando di estendere questa tassazione anche ai social media, considerando le registrazioni degli utenti come ‘transazioni imponibili’.

Meta, X e LinkedIn si oppongono alla richiesta IVA dell’Italia
Meta, X e LinkedIn si oppongono alla richiesta IVA dell’Italia

L’Italia richiede quindi alle piattaforme digitali arretrati di Iva pari ad oltre 1 miliardo di euro. Nello specifico: 887,6 milioni di euro a Meta; 12,5 milioni di euro a X e circa 140 milioni di euro a LinkedIn.

Successivamente all’avviso di accertamento inviato dall’Agenzia delle Entrate, quando erano già scaduti i termini, Meta, X e LinkedIn hanno presentato ricorso presso la corte tributaria di primo grado.

La questione rischia di diventare politica

Ora, la questione diventa politica perché le stesse piattaforme si aspettano che ci sia un intervento da parte dell’amministrazione Trump in loro difesa. E non è escluso che ciò accada visti i fatti di questi ultimi giorni riguardo ai dazi.

E poi perché l’azione italiana potrebbe poi essere estesa a tutti i paesi UE a 27. Di conseguenza si potrebbe giungere ad una armonizzazione del provvedimento e portare le piattaforme digitali al pagamento delle tasse sulla base delle iscrizioni degli utenti in ciascun paese.

Al momento solo Meta ha fatto una dichiarazione in merito. La società fondata e guidata da Mark Zuckerberg ha replicato di aver “collaborato pienamente con le autorità italiane”, ma di essere “fortemente in disaccordo con l’idea che fornire agli utenti l’accesso alle piattaforme online debba essere soggetto a IVA”.

LinkedIn ha affermato di non avere “nulla da condividere al momento”. Mentre X, la piattaforma di Elon Musk, al momento non ha espresso alcun commento in merito.

Vedremo come si svilupperà la vicenda che potrebbe ottenere un risultato non prima della primavera del 2026.

Meta non firma il Codice UE sull’IA generativa

Meta non firma il Codice UE sull’IA generativa

Meta non firmerà il Codice UE sull’IA. Una scelta che rischia di inasprire i rapporti con Bruxelles, mentre OpenAI e Mistral si dichiarano pronte a firmare. Cosa cambia dal 2 agosto 2025.

A meno di un mese dall’entrata in vigore delle norme europee sull’intelligenza artificiale, Meta ha deciso di sfilarsi. Non firmerà il Codice di buona condotta per i modelli generativi promosso dalla Commissione Europea.

Lo ha fatto sapere ufficialmente Joel Kaplan, vicepresidente globale per gli affari istituzionali del gruppo, con una dichiarazione chiara. Il Codice, nelle parole di Meta, sarebbe inutilizzabile e incompatibile con la realtà operativa delle aziende. Un ostacolo allo sviluppo, più che una guida, sostiene Kaplan.

La decisione di Meta su AI Act dell’UE

La decisione di Meta non è una sorpresa. L’azienda aveva già espresso scetticismo nei mesi precedenti, soprattutto di fronte all’impianto dell’AI Act, che entrerà pienamente in vigore il prossimo 2 agosto.

Ma stavolta la presa di posizione è formale. Il Codice, secondo Meta, introdurrebbe obblighi che vanno oltre quanto previsto dal regolamento europeo, ampliandone l’ambito in modo non proporzionato rispetto alla cornice legale definita dall’AI Act.

Il nodo è proprio questo.

Meta non firma il Codice UE sull’IA generativa
Meta non firma il Codice UE sull’IA generativa

Cosa prevede il Codice di condotta su IA dell’UE

Il Codice di buona condotta è uno strumento volontario, pensato per accompagnare l’entrata in vigore dell’AI Act e offrire una via semplificata alla conformità.

Firmarlo significa aderire a una serie di impegni trasparenti, come: pubblicare informazioni dettagliate sui dati di addestramento; descrivere in modo comprensibile le capacità e i limiti dei modelli; evitare l’uso di contenuti protetti da copyright non autorizzati; prevedere sistemi di sicurezza informatica e monitoraggio dei rischi, specialmente per i modelli ad alto impatto.

Ma significa anche beneficiare di un percorso di conformità agevolato, evitando verifiche caso per caso.

Rifiutare la firma, invece, comporta l’obbligo di dimostrare puntualmente la compatibilità con ogni requisito dell’AI Act, con un carico legale potenzialmente molto più pesante.

Secondo la versione di Kaplan, tutto questo si tradurrebbe in un freno per lo sviluppo dei modelli di intelligenza artificiale in Europa.

Possibile contrapposizione UE-Usa

Meta teme che la combinazione tra Codice e regolamento generi un clima normativo incerto e disincentivante. E chiede che anche il governo statunitense intervenga per tutelare la competitività delle aziende americane, indicando che l’impianto europeo possa rappresentare una minaccia sistemica per l’intero settore.

La posizione delle altre aziende IA

Nel frattempo, le posizioni degli altri protagonisti del mercato si stanno delineando.

OpenAI ha annunciato l’intenzione di firmare il Codice, subordinando la firma all’approvazione definitiva del testo da parte dell’AI Board europeo. La società che sviluppa ChatGPT, in una dichiarazione pubblicata l’11 luglio sul proprio sito, ha spiegato che aderire rappresenta un passo strategico per consolidare la sua presenza in Europa.

La firma del Codice offrirebbe maggiore certezza normativa, permetterebbe un dialogo più stabile con le autorità e costituirebbe una base condivisa per future evoluzioni regolatorie. In sostanza, per OpenAI si tratta di una mossa diplomatica quanto pragmatica.

Anche Mistral AI, la startup francese sostenuta dal governo Macron, ha già fatto sapere che firmerà. La decisione rientra nella visione sovrana europea sull’IA e segna un allineamento netto rispetto agli obiettivi della Commissione.

Al contrario, altre aziende statunitensi come Google (con DeepMind e Gemini) o Anthropic non si sono ancora espresse pubblicamente. L’adesione al Codice resta aperta, ma il silenzio suona come un segnale prudente, se non di diffidenza.

Non mancano poi le critiche da parte delle grandi aziende europee. In una lettera inviata a Bruxelles a fine giugno, un gruppo di 44 imprese tra cui Airbus, Mercedes-Benz, Siemens e SAP ha chiesto di posticipare di almeno due anni l’applicazione dell’AI Act.

Il timore condiviso è che la sovrapposizione tra le varie normative europee – AI Act, Data Act, Cyber Resilience Act – produca un quadro troppo rigido e incoerente, penalizzando l’innovazione e allontanando gli investimenti.

Le regole entreranno in vigore il 2 agosto, senza rinvii

La Commissione ha però ribadito che non ci saranno rinvii.

Il primo agosto sarà pubblicata la lista ufficiale dei firmatari del Codice e dal giorno successivo le nuove regole per i modelli generativi entreranno pienamente in vigore. I prossimi mesi diranno se l’adesione sarà ampia oppure limitata.

Ma intanto, con la decisione di Meta, il confronto si sposta su un piano più ampio. E cioè quello del rapporto tra le regole pubbliche e il potere decisionale delle grandi piattaforme. Che sono in mano a società private.

Quindi, mentre l’UE tenta di governare lo sviluppo dell’intelligenza artificiale con strumenti giuridici trasparenti e condivisi, le grandi piattaforme continuano a negoziare lo spazio della norma.

Vedremo se alla fine Meta rivedrà la sua decisione.

Ecco ChatGPT Agent, come usarlo e a cosa serve

Ecco ChatGPT Agent, come usarlo e a cosa serve

Con il lancio di ChatGPT Agent, OpenAI apre una nuova fase della sua intelligenza artificiale: quella dell’azione autonoma. Si tratta di un agente che legge, decide, agisce. E cambia il nostro rapporto con il web.

La presentazione era nell’aria, anzi era attesa avendo più volte OpenAI sostenuto che il lancio sarebbe stato entro l’estate. E così è stato.

Ieri sera ora italiana, 17 luglio 2025, OpenAI ha presentato ufficialmente ChatGPT Agent, una nuova funzione integrata nel servizio ChatGPT che segna un passaggio decisivo nell’evoluzione dell’intelligenza artificiale generativa. Ma non si tratta soltanto di un aggiornamento: è l’inizio di una fase in cui i modelli di AI non si limitano più a rispondere, ma agiscono. Non solo generano, ma operano.

Con questo rilascio, OpenAI introduce una forma concreta di Agent AI, sistemi progettati per compiere azioni autonome all’interno di un ambiente digitale per conto dell’utente.

È un cambio di paradigma che modifica il nostro modo di interagire con la tecnologia, di lavorare. Ma anche di interagire con il web, con le nostre solite operazioni online.

Ecco ChatGPT Agent, come usarlo e a cosa serve
Ecco ChatGPT Agent, come usarlo e a cosa serve

Cosa fa ChatGPT Agent

ChatGPT Agent è un’estensione del modello GPT-4o che permette all’IA di eseguire compiti complessi in autonomia. Non ci troviamo più davanti a un assistente passivo che attende istruzioni dettagliate.

L’utente fornisce un obiettivo e l’agente lo raggiunge eseguendo una sequenza di azioni logiche, concatenate, spesso multi-step.

In pratica, l’agente può:

  • navigare sul web (leggere pagine, cliccare link, accedere a contenuti);

  • scrivere e inviare email tramite Gmail;

  • aggiornare file su Google Drive;

  • compilare moduli, completare registrazioni, eseguire prenotazioni;

  • utilizzare strumenti di produttività (fogli di calcolo, calendari, presentazioni);

  • eseguire codice, interagire con terminale e browser.

Il tutto avviene in background, mentre l’utente può continuare a lavorare o semplicemente attendere un aggiornamento.

ChatGPT Agent tiene memoria del contesto in cui sta operando, sa riprendere una conversazione interrotta e, soprattutto, è in grado di auto-correggersi. Infatti, se un passaggio dovesse fallire, proverebbe a risolverlo autonomamente prima di chiedere supporto.

Come funziona: Deep Research e Operator

La forza di ChatGPT Agent si basa su due componenti già noti, ora unificati e potenziati:

  • Operator: consente al modello di interagire con strumenti esterni, simulando una vera interfaccia grafica, cliccando, compilando, navigando all’interno di un ambiente controllato.

  • Deep Research: è la modalità che permette all’agente di eseguire ricerche complesse su web, raccogliendo, filtrando, valutando le informazioni trovate, con una logica orientata al risultato e non più alla singola risposta.

Si tratta quindi di una struttura ibrida, dotata di un “computer virtuale” che opera autonomamente: può accedere al browser, al terminale, a file locali e a integrazioni cloud. E soprattutto può “lavorare per te” mentre l’utente è impegnato su altro.

Chi può usarlo e come accedervi

La funzione è disponibile da subito per gli utenti ChatGPT Pro. Sarà rilasciata progressivamente anche per i piani Team, Enterprise e Education. Gli utenti del piano Plus potranno testarne alcune funzionalità a capacità limitata (come già accade con GPT-4o), mentre l’uso completo sarà possibile su richiesta o tramite aggiornamento dell’abbonamento.

Va detto che, per ora, l’uso dell’agente è soggetto a limiti di prompt mensili (fino a 400 per il piano Pro), e alcune funzionalità, come l’accesso a file esterni o API private, richiedono autorizzazioni esplicite.

Per l’abbonamento Plus il limite dei prompt mensili è 40.

Cosa cambia per il lavoro (e per il web)

L’impatto di ChatGPT Agent sul lavoro quotidiano è potenzialmente enorme. Significa poter automatizzare task ripetitivi (report, e-mail, organizzazione); delegare flussi complessi (prenotazioni, gestione documenti, confronto offerte); risparmiare tempo su attività a basso valore aggiunto; gestire azioni tra più strumenti senza doverli aprire manualmente.

Ma l’effetto più interessante, in questo contesto, riguarda il web stesso.

Con ChatGPT Agent, diventa possibile che una porzione significativa del traffico web sia generata da agenti automatizzati, che leggono, valutano, cliccano, e persino comprano, al posto nostro.

Per i siti web significa, quindi, riconsiderare l’ottimizzazione dei contenuti (dal punto di vista SEO); introdurre meccanismi di autorizzazione selettiva (robots.txt, API, autorizzazioni granulari); confrontarsi con un nuovo tipo di utente operativo.

Nel senso che fa azioni di lettura dei contenuti da una pagina, click su altri link, compilazione di moduli. Tutte azioni che faremmo noi e che da oggi si possono “delegare”.

Agent AI, passaggio da modello a sistema

L’idea di “Agent AI” non è nuova, ma con questo lancio assume una forma finalmente tangibile. Gli agenti non sono più prototipi in ambienti di ricerca, ma strumenti operativi pronti a entrare nella quotidianità di professionisti, aziende e privati.

Un Agent AI è, per definizione, un’entità:

  • orientata a uno scopo (goal-oriented);

  • capace di pianificare e agire;

  • dotata di memoria temporanea;

  • in grado di interagire con ambienti e strumenti esterni;

  • responsabile di portare a termine una sequenza di azioni anche complesse.

Non parliamo solo di automazione. Parliamo della capacità di ragionare, decidere e adattarsi. E, in prospettiva, parliamo anche di un primo passo verso l’intelligenza artificiale come compagno operativo, che affianca l’uomo nelle decisioni e non solo nella scrittura.

Tra opportunità e nuove responsabilità

È inevitabile che un salto di questa portata comporti anche nuove sfide. Le principali riguardano sicuramente la sicurezza e supervisione. ChatGPT Agent richiede conferme per procedere con azioni sensibili, ma la responsabilità resta dell’utente. Trasparenza: gli agenti devono poter essere tracciati, monitorati, eventualmente bloccati; serve quindi una grande dose di fiducia e capacità di controllo.

Accesso ai dati, gli agenti leggono e analizzano informazioni. Ma dove finiscono questi dati? Chi li gestisce? Per quanto tempo?

Siamo di fronte ad una svolta

Con ChatGPT Agent, OpenAI porta l’intelligenza artificiale in una nuova fase. Quella dell’azione autonoma, della possibilità di delegare attività cognitive, dell’automazione adattiva. Un modello che non si limita a pensare, ma adesso agisce.

Siamo di fronte, o meglio iniziamo ad essere di fronte, ad una nuova forma di interazione uomo-macchina, in cui l’AI non è più solo un’interfaccia, ma diventa un’entità attiva nel nostro ecosistema digitale.

E questo inizia davvero a cambiare tutto. Il lavoro, il web, la produttività, persino la fiducia nei sistemi.

Evidentemente questo è solo un primo passo, vedremo come tutto questo evolverà nelle prossime settimane e nei prossimi mesi.

Ferrero e Kellogg’s, il valore della storia non basta più

Ferrero e Kellogg's, il valore della storia non basta più

L’acquisizione di Kellogg’s da parte di Ferrero rivela un cambio di paradigma ormai in atto. Le aziende storiche valgono meno delle startup tech. Una riflessione sul significato del valore di un’azienda nell’era dei dati e del digitale.

È la notizia di cui ormai si parla da giorni, soprattutto in Italia, ma non solo.

Ferrero, uno dei marchi italiani più forti al mondo, ha annunciato l’acquisizione di Kellogg’s per una cifra che si aggira attorno ai 3 miliardi di dollari. Sì, proprio 3 miliardi.

Una cifra che, a prima vista, può apparire importante, ma che nel contesto attuale del mercato globale, dominato da valutazioni vertiginose nel settore tech e digitale, suona come molto bassa, se non addirittura “ridicola”.

E questo non per sminuire il valore dell’acquisizione. Ma solo per spiegare quello che è il contesto odierno. Che è poi lo scopo di questa riflessione.

Infatti, se mettiamo questa cifra accanto ad acquisizioni recenti di startup tecnologiche o piattaforme digitali con pochi anni di vita, la sproporzione è talmente evidente da non poter essere ignorata.

E non è solo una questione di numeri. È una questione di tempo/storia, di percezione e di proiezione nel futuro.

La storia di un’azienda e la velocità del presente

Kellogg’s è un’azienda nata nel 1906. Ha attraversato guerre mondiali, boom economici, cambiamenti di abitudini alimentari e rivoluzioni di mercato.

È diventata sinonimo di “cereali a colazione” in tutto il mondo. Eppure oggi, nel 2025, il suo valore sul mercato risulta essere meno della metà di quanto Microsoft ha pagato per LinkedIn nel 2016.

Una cifra che risulta venti volte più bassa di quanto Meta ha speso per WhatsApp nel 2014. E oltre sessanta volte più bassa dell’acquisizione di Activision Blizzard da parte di Microsoft nel 2022.

Questa sproporzione non è casuale. È il segnale di un cambiamento profondo nella gerarchia del valore. Le aziende tradizionali non vengono più premiate per la loro solidità, per la loro storia o per la loro presenza capillare sul territorio.

Oggi, ciò che conta è la capacità di intercettare il presente e generare futuro.

Ferrero e Kellogg's, il valore della storia non basta più
Ferrero e Kellogg’s, il valore della storia non basta più

Alcune recenti acquisizioni nel mondo digital e tech

Per rendere chiara la dimensione di questa trasformazione, basta osservare alcune delle acquisizioni digital e tech più significative degli ultimi anni:

  • Instagram, con 13 dipendenti e nessun modello di business sostenibile, fu acquisita da Meta nel 2012 per 1 miliardo.

  • WhatsApp, app gratuita, nel 2014 fu valutata 19 miliardi.

  • LinkedIn, il social network professionale, fu acquistato da Microsoft nel 2016 per 26 miliardi.

  • Activision Blizzard, colosso del gaming, è passato a Microsoft per 68,7 miliardi.

  • E nel 2023, Figma, una giovane startup per il design collaborativo, stava per essere acquistata da Adobe per 20 miliardi (poi l’operazione è saltata per motivi antitrust).

In questi casi, non contano i capannoni, i camion, le filiere o i dipendenti.

Ma vale, soprattutto, la capacità di scalare, raccogliere dati, diventare infrastruttura dell’attenzione.

All’opposto, le grandi acquisizioni nel settore industriale, seppur solide, raccontano una storia diversa:

  • LVMH ha acquistato Tiffany per 15,8 miliardi, pur essendo un marchio con oltre 180 anni di storia.

  • InBev ha acquisito Anheuser-Busch nel 2008 per 52 miliardi, cifra che oggi suona più alta solo perché avvenuta in un tempo ancora favorevole all’industria tradizionale.

  • E oggi, Ferrero acquisisce Kellogg’s per 3 miliardi, ottenendo marchi storici, infrastrutture produttive e una base consolidata di consumatori.

Il confronto è impietoso: le aziende storiche valgono meno del sogno di un’idea digitale scalabile.

I dati sono più importanti del petrolio

Abbiamo accennato ai dati, poco più sopra. Allora val la pena ricordare come i dati siano davvero importanti. L’esempio che segue ci aiuta a focalizzare meglio il tema.

Nel 2017 una celebre copertina dell’Economist titolava: “Il bene più prezioso del mondo non è più il petrolio, ma i dati.” Era una fotografia esatta del passaggio di paradigma che stavamo vivendo, e che oggi è diventato realtà quotidiana.

Ferrero e Kellogg's, il valore della storia non basta più
Copertina Economist

A differenza del petrolio, i dati non si esauriscono. Si moltiplicano. E, soprattutto, non richiedono impianti fisici o infrastrutture complesse per essere estratti e venduti, ma bastano, volendo semplificare, un algoritmo, una piattaforma, un’app.

Le aziende tech hanno costruito il loro valore sulla capacità di raccogliere, interpretare e monetizzare questi dati.

Non è un caso che le valutazioni più alte degli ultimi anni siano andate proprio a imprese che non producono nulla di fisico, ma che controllano flussi immateriali: attenzione, comportamento, interazioni. E quindi, potere.

Il Valore oggi è questione di prospettiva

Nel nuovo paradigma del mercato, ciò che si valuta non è quello che l’azienda ha costruito nel tempo, ma quello che potrà generare nei prossimi 6, 12, 24 mesi.

Kellogg’s ha costruito la propria realtà in oltre un secolo, consolidando presenza industriale, filiere e riconoscibilità globale.

Figma (come qualsiasi azienda dello stesso settore e innovativa), invece, in appena quattro anni ha saputo imporsi come riferimento per la collaborazione digitale.

Due storie incomparabili per natura e per epoca, ma che agli occhi del mercato si valutano con lo stesso parametro. Ossia, la capacità di intercettare il futuro.

Questa dinamica rende chiaro che il valore simbolico, culturale, produttivo o economico costruito nel tempo non è più sufficiente. Le aziende storiche si trovano a dover ridisegnare la propria traiettoria.

O si reinventano, o diventano parte di chi ha già agganciato il treno della trasformazione.

Ferrero e Kellogg's, il valore della storia non basta più
Ferrero – Kellogg’s

Ferrero consolida, mentre il tech colonizza

L’acquisizione di Kellogg’s da parte di Ferrero non è una mossa per fare disruption, ma un’azione di consolidamento.

È una strategia coerente con una visione industriale, fondata sull’integrazione verticale, sull’espansione nei mercati chiave e sulla difesa del proprio perimetro competitivo.

Il settore tech, invece, non acquisisce per consolidare, ma per colonizzare. E quindi piattaforme, dati, comportamenti.

Non importa quanto sia solida un’azienda, se non è in grado di tenere il passo digitale, non è competitiva. E alla fine, viene inglobata.

Le aziende storiche sono in svendita?

Questa è la domanda più scomoda. Ma anche la più necessaria. Il caso Kellogg’s, come quello recente di Tiffany, o in passato di Motorola, Nokia, Yahoo, ci dice che essere iconici oggi non basta più.

La reputazione non è più sufficiente a generare valore nel presente. Serve essere capaci di guardare oltre.

E che la storia non è tutto, se non è accompagnata da innovazione vera.

È questo che oggi dovrebbero interrogarsi tutte le imprese nate nel secolo scorso: quanto del loro valore è ancora riconosciuto? Quanto della loro narrazione è ancora rilevante?

L’acquisizione di Kellogg’s da parte di Ferrero è molto più di un’operazione industriale.

È un segnale forte. Il valore oggi non risiede solo e soltanto nella storia, come spesso siamo portati a credere. Ma nella capacità di leggere il presente e anticipare il futuro.

Anche i marchi più iconici devono scegliere. Evolvere o scomparire. La solidità di ieri non basta più.

Serve visione, velocità e una nuova grammatica del valore.

Dopo appena due anni, Linda Yaccarino lascia X

Dopo appena due anni, Linda Yaccarino lascia X

Dopo due anni difficili alla guida di X, Linda Yaccarino decide di dimettersi dal ruolo di CEO. Un addio che pone ulteriori interrogativi sul futuro della piattaforma. Non ci sono ancora nomi di possibili sostituti.

Sono passati appena due anni dalla sua nomina a CEO di X e oggi Linda Yaccarino ha annunciato la sua intenzione di dimettersi.

“Dopo due incredibili anni” – scrive la Yaccarino su X in un post in cui ha dato la notizia – “ho deciso di dimettermi dal ruolo di CEO di 𝕏”. Che siano stati incredibili bisogna darle atto che è vero.

Portare avanti il suo ruolo con Elon Musk non è stato facile e solo la sua grande resilienza, ed esperienza, le ha permesso di non soccombere prima. Come in tanti si aspettavano.

Yaccarino e i “vaffa” di Musk

Ma Linda Yaccarino, forte della sua lunga permanenza in NBCUniversal, ha saputo destreggiarsi al meglio nonostante Musk le rendesse la vita difficile. Ricorderete certamente il grande “vaffa” rivolto agli investitori dopo che molte aziende avevano deciso di abbandonare X a causa dei contenuti sempre più polarizzanti, se non addirittura estremisti, propagati proprio da Musk. Una situazione che rischiò di mettere in difficoltà la stessa piattaforma.

Proprio in quel momento ci si sarebbe aspettato il passo indietro della Yaccarino. E invece la CEO decise da quel momento in poi che quella era la “sua grande opportunità” e che quindi doveva avere pazienza e ricostruire i rapporti con le aziende (molte delle quali sue clienti in passato) deteriorati dalle continue e pesanti esternazioni del suo capo.

Dopo appena due anni, Linda Yaccarino lascia X
Dopo appena due anni, Linda Yaccarino lascia X

“Gli sono immensamente grata – scrive ancora la Yaccarino nel suo post rivolgendosi a Musk – per avermi affidato la responsabilità di proteggere la libertà di parola, rilanciare l’azienda e trasformare X nell’app completa”.

Tra le mille difficoltà che la Yaccarino ha dovuto affrontare con X, di certo anche la gestione del rapporto con Musk era parte importante del lavoro.

Lavoro che alla fine, bisogna dirlo, ha premiato la tenacia della Yaccarino.

Infatti, come già ricordato in altre circostanze, dopo la grande fuga gli inserzionisti come Amazon, Apple, per citarne un paio, sono tornate a fare nuovamente annunci pubblicitari su X.

Migliora la situazione di X, ma non del tutto

La società che detiene X, X Corp., nel corso degli ultimi mesi ha recuperato gran parte dei debiti accumulati ed è stata acquisita da xAI, la società di Musk che realizza il chatbot IA Grok (di cui oggi verrà annunciata una nuova versione Grok 4).

Gli esperti sostengono che X stia recuperando terreno, migliorando la situazione anche se ancora al di sotto di quella del 2022 pre acquisizione.

Le previsioni dicono che per il 2025 ci sarà una crescita, su base annua, dei ricavi pubblicitari di X del +16,5 % (16,5 %, pari a $2,26 mld globali) e +17,5 % negli Stati Uniti ($1,31 mld). Un rialzo importante dopo il tonfo del ­–51 % del 2023.

X ancora centrale per le notizie e la politica

La stessa piattaforma continua, nonostante tutto, ad essere centrale per la politica, per le notizie e per lo sport. Anche dopo la proliferazione di diverse alternative, alcune valide come Threads o Bluesky, X è ancora molto usata e si dice che abbia superato gli 800 milioni di utenti attivi.

La situazione delle minacce legali da parte di Musk e di X ha sicuramente portato molte aziende di nuovo sulla piattaforma, anche se molte sono state riportate a bordo proprio dalla Yaccarino. Ma c’è ancora molto da fare.

Desta qualche perplessità in fatto che la Yaccarino annuncia la sua uscita da X proprio quando Musk ha annunciato il suo nuovo partito “America Party” e proprio nello stesso giorno del grande annuncio di Grok 4.

Al momento non si sa nulla di probabili successori. Tra i papabili potrebbero esserci nomi come Steve Davis, fidatissimo di Musk, o anche Nick Pickles. Lo sapremo nelle prossime ore o nei prossimi giorni.

Sicuramente, chiunque prenderà il posto di Linda Yaccarino avrà un compito molto difficile da portare avanti. In un momento molto, ma molto, complicato.

Trump rinvia ancora la decisione su TikTok, ecco perché

Trump rinvia ancora la decisione su TikTok, ecco perché

Trump firma una nuova proroga per TikTok. L’app di ByteDance potrà operare negli Stati Uniti fino al 17 settembre, con protezione legale completa. Vediamo insieme il perché di questa scelta e cosa comporta.

Come anticipato qualche giorno fa dalla portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, l’amministrazione Trump ha dato il via ad una nuova proroga di 90 giorni a ByteDance, la società cinese proprietaria di TikTok, per completare la cessione delle attività statunitensi della piattaforma.

Con questo annuncio, il termine inizialmente fissato per il 19 giugno slitta nuovamente, fissando la nuova scadenza al 17 settembre 2025. Si tratta della terza estensione consecutiva da parte della Casa Bianca in meno di sei mesi.

Una decisione che da un lato permette alla piattaforma di respirare ancora; ma dall’altro apre un fronte di critiche sul piano politico e normativo, alimentando un clima di incertezza attorno alla complessa questione di TikTok negli Usa.

Una nuova proroga, tra tattica e ambiguità

La proroga è stata confermata dalla portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt e formalizzata il 20 giugno 2025, con un nuovo ordine esecutivo firmato da Trump.

Nel testo si stabilisce che TikTok potrà continuare a operare fino al 17 settembre senza subire alcuna azione punitiva, né da parte delle autorità federali né da parte di soggetti statali o privati.

Il Dipartimento di Giustizia ha ricevuto istruzioni chiare. E quindi, fino a quella data, nessun provvedimento potrà essere intrapreso contro ByteDance o TikTok in relazione alla legge firmata nel 2024.

Nei fatti, l’applicazione della norma è sospesa completamente, almeno per i prossimi tre mesi.

Trump rinvia ancora la decisione su TikTok, ecco perché
Trump rinvia ancora la decisione su TikTok, ecco perché

L’importanza strategica di TikTok per Trump

TikTok conta oggi oltre 170 milioni di utenti negli Stati Uniti e rappresenta, a tutti gli effetti, uno dei principali canali di comunicazione digitale per il pubblico più giovane. E non solo.

Trump, che durante la campagna presidenziale del 2024 ha puntato proprio sulla capacità di raggiungere questa fascia di elettorato, sembra consapevole del rischio politico di una chiusura forzata della piattaforma.

Ma c’è anche il risvolto del ruolo di TikTok per le piccole e media imprese americane che grazie alla piattaforma cinese hanno creato spazi commerciali, in alcuni casi, vitali.

La scelta di rinviare ancora non appare solo tecnica, ma profondamente tattica. Infatti, garantisce tempo per eventuali trattative di vendita, ma soprattutto permette di conservare attivo un canale strategico di comunicazione, evitando strappi in un momento politicamente delicato.

La legge sulla sicurezza nazionale, approvata con ampio consenso bipartisan nell’aprile 2024, prevedeva inizialmente che ByteDance cedesse TikTok entro 270 giorni, con la possibilità di un’unica proroga di 90 giorni.

Dopo una prima estensione al 19 aprile e una seconda al 19 giugno, quella di oggi rappresenta la terza proroga, e molti osservatori iniziano a parlare apertamente di una sorta di svuotamento della legge.

Alcuni membri del Congresso, in particolare tra i democratici, hanno espresso forti perplessità. La ripetizione degli ordini esecutivi, secondo loro, mina la credibilità dell’impianto normativo e crea un precedente pericoloso.

Se una legge così chiara può essere aggirata per decreto, quale sarà il limite nei prossimi casi?

Nessuna vendita di TikTok all’orizzonte

Nonostante il tempo guadagnato, la cessione di TikTok non appare proprio all’orizzonte. Le trattative con potenziali acquirenti americani, tra cui gruppi tecnologici e investitori privati, si trovano ancora in fase interlocutoria.

Le difficoltà non sono solo politiche. La Cina ha imposto paletti normativi che rendono complicata la vendita degli algoritmi alla base della piattaforma, e le autorità statunitensi hanno sollevato dubbi antitrust su alcuni dei soggetti interessati all’acquisto.

ByteDance, da parte sua, non ha rilasciato dichiarazioni ufficiali negli ultimi giorni, e il rischio concreto è che il rinvio sia solo un modo per guadagnare tempo, senza una reale prospettiva di chiusura dell’operazione.

Una sospensione senza precedenti

L’aspetto più rilevante dell’ordine esecutivo firmato oggi è la sospensione totale dell’applicazione della legge. Significa che, non solo il governo federale, ma anche stati e cittadini privati non potranno avviare alcuna azione legale contro TikTok fino al 17 settembre.

Una clausola che segna un cambio di passo rispetto alle precedenti proroghe, e che mostra chiaramente la volontà di Trump di congelare completamente lo scontro normativo in corso.

Nel frattempo, la piattaforma continua a operare, i contenuti continuano a circolare e gli investimenti pubblicitari non si sono fermati.

Ma il clima resta sospeso, in attesa di un chiarimento che, per ora, viene ancora una volta rimandato.

La strategia di Trump: ritardare e prendere tempo

L’impressione, ormai sempre più diffusa, è che Trump non voglia risolvere davvero il nodo TikTok, ma preferisca mantenerlo aperto come leva politica.

Concedendo proroghe continue, infatti, evita il peso di una decisione definitiva, mantiene un rapporto funzionale con una parte rilevante dell’elettorato Usa e, al tempo stesso, può continuare a rivendicare una posizione di fermezza verso la Cina.

È una strategia che consente di gestire il problema senza chiuderlo, lasciando aperte tutte le opzioni in vista dei prossimi mesi. Una posizione in un equilibrio precario tra diplomazia, campagna elettorale e tutela del consenso.

La proroga concessa da Trump a TikTok — ora formalizzata e completa di protezione legale fino al 17 settembre — è solo l’ultimo atto di una vicenda che si trascina da oltre un anno e che continua a mescolare comunicazione, geopolitica, tecnologia e diritto.

TikTok resta operativa, ma in uno scenario sempre più sospeso, dove nessuna soluzione è definitiva e dove ogni decisione, più che rispondere a un principio, sembra seguire una convenienza.

Nei prossimi mesi scopriremo se questa nuova finestra sarà davvero usata per costruire una via d’uscita oppure se ci troveremo, ancora una volta, di fronte all’ennesimo rinvio.

Social media e adolescenti, è arrivato il momento di decidere

Social media e adolescenti, è arrivato il momento di decidere

La tragedia in Francia e l’iniziativa di Macron riaccendono sull’età minima per accedere ai social media. Tra divieti, educazione all’uso delle piattaforme e salute mentale, l’UE è chiamata a decidere. E a farlo in fretta.

Si torna a parlare del rapporto tra adolescenti e piattaforme digitali, tra giovani e social media. E purtroppo, ancora una volta, lo si fa in seguito a eventi tragici. L’attenzione in questi giorni è puntata su quanto accaduto in Francia, mentre alcuni hanno provato a collegare anche la recente tragedia avvenuta in Austria. Ma al momento, va detto chiaramente, non ci sono evidenze che leghino direttamente quel fatto all’uso dei social.

Il caso francese e l’intervento di Macron

Diverso è il caso francese, che ha riportato in primo piano la discussione sul legame tra uso delle piattaforme digitali e fragilità adolescenziale. A rilanciarlo è stato direttamente il presidente Emmanuel Macron, intervenuto in modo netto e deciso dopo l’ennesimo episodio di violenza in ambito scolastico.

Un ragazzo di 14 anni ha aggredito e ucciso, con una violenza inaudita, una bidella nella scuola che frequentava. La donna stava controllando lo zaino del ragazzo. Una prassi. Ma la reazione del giovane è stata tanto brutale quanto incomprensibile.

Di fronte a questo fatto, Macron ha annunciato l’intenzione di introdurre una legge nazionale che vieti l’accesso ai social media ai minori di 15 anni. Insieme al ministro per il Digitale, ha rivolto un ultimatum all’Unione Europea: se entro tre mesi non verrà adottata una norma comune, la Francia procederà autonomamente. Una posizione netta, che riaccende un dibattito già esistente ma spesso eluso.

Social media e adolescenti, è arrivato il momento di decidere
Social media e adolescenti, è arrivato il momento di decidere

Un grande problema che si è acuito con la pandemia

Questa discussione non nasce oggi. Già prima della pandemia c’erano segnali evidenti, ma è stato durante i lunghi mesi di isolamento che il digitale è diventato l’unico spazio possibile per studiare, lavorare, comunicare. Un’accelerazione improvvisa che ha portato benefici, certo, ma anche squilibri che oggi si manifestano con forza.

Nel 2021, lo ricorderete, il Wall Street Journal pubblicò documenti interni di Meta – i cosiddetti “Facebook Papers”, che dimostravano come Instagram fosse ritenuto pericoloso, soprattutto per le ragazze adolescenti.

La piattaforma alimentava un senso costante di inadeguatezza, spingendo a rincorrere modelli estetici irraggiungibili, associati a una forma distorta di approvazione sociale. Il risultato? Un aumento della pressione psicologica e un impatto diretto sulla salute mentale.

Oggi, a distanza di anni, Instagram prova a ricalibrare il proprio approccio.

Tra maggio e giugno 2025 ha lanciato una campagna rivolta all’Unione Europea, chiedendo che la verifica dell’età degli utenti avvenga già nei negozi digitali, App Store e Google Play, prima ancora del download.

L’obiettivo dichiarato è quello di evitare dichiarazioni d’età fittizie e garantire un accesso più responsabile.

L’UE potrebbe partire dal DSA

Ma questo è solo un pezzo del problema. Perché in Europa esiste già il Digital Services Act, entrato in vigore nel 2022, che impone obblighi di trasparenza alle piattaforme. Tuttavia, non prevede ancora un sistema chiaro e vincolante per la verifica dell’età. E così, mentre alcuni Paesi come Francia, Spagna, Grecia e Danimarca cercano di armonizzare gli interventi, a livello europeo manca ancora un’azione realmente coordinata.

Social media e adolescenti, caso Australia 

C’è poi il caso dell’Australia, che ha adottato una delle normative più radicali: dal 2025 vigerà il divieto di accesso ai social media per i minori di 16 anni. Una legge chiara, che prevede sanzioni fino a 50 milioni di dollari australiani per le piattaforme che non si adeguano. Anche qui, la spinta è arrivata da un’opinione pubblica sempre più consapevole dei rischi a cui sono esposti i più giovani.

Ma è davvero il divieto la soluzione definitiva?

No. E serve dirlo con chiarezza. Vietare, da solo, non basta. Occorre educare. Occorre formare. Occorre accompagnare i ragazzi verso un uso più consapevole e responsabile dei media digitali. Serve dare loro gli strumenti per riconoscere e gestire la pressione che deriva da un’esposizione costante ai contenuti e ai giudizi degli altri.

Istruzioni e attenzione all’uso più forte dei divieti

Stiamo parlando di effetti concreti: calo dell’attenzione, reazioni emotive eccessive, incapacità di gestire frustrazioni e situazioni complesse.

Tutti elementi che pesano enormemente sulla crescita personale, e che possono portare, come purtroppo abbiamo visto, a conseguenze gravi, talvolta irreparabili.

Su questo dovrebbe riflettere la politica. Ed è qui che le istituzioni devono agire, non con reazioni di pancia, ma con strumenti efficaci e coerenti. Perché il problema è reale, ed è sempre più grande.

Oggi è il momento delle decisioni. Decisioni che devono mettere al centro il benessere dei nostri ragazzi. Basta inseguire like, basta inseguire l’effimero. Perché l’effimero scompare. Ma i nostri figli restano. E la loro salute mentale conta più di qualsiasi algoritmo.

Accenture si estende verso l’aerospazio con l’area IPS di SIPAL

Accenture si estende verso l'aerospazio con l’area IPS di SIPAL

Accenture annuncia l’intenzione di acquisire l’area Integrated Product Support di SIPAL, potenziando la propria presenza nei settori strategici della difesa e dell’aerospazio in Italia e in Europa.

Accenture ha annunciato l’intenzione di acquisire dell’area Integrated Product Support (IPS) di SIPAL, una mossa che conferma e rafforza la strategia industriale del gruppo nei settori dell’aerospazio e della difesa, in Italia e in Europa.

L’operazione, che coinvolge circa 250 professionisti con sede principale a Torino e sedi operative in tutta Italia, rappresenta un tassello chiave nella costruzione di un polo di eccellenza ingegneristica a supporto della trasformazione tecnologica dell’industria militare e aerospaziale.

L’area IPS di SIPAL è specializzata in attività complesse lungo l’intero ciclo di vita dei prodotti: dalla gestione tecnica alla manutenzione, fino alla formazione e alla produzione.

Un insieme di competenze che oggi confluisce all’interno di Industry X, la business unit di Accenture dedicata alla trasformazione dell’ingegneria e delle infrastrutture, alimentata da tecnologie digitali, intelligenza artificiale e automazione.

Accenture si estende verso l'aerospazio con l’area IPS di SIPAL
Accenture si estende verso l’aerospazio con l’area IPS di SIPAL

Un’acquisizione strategica per Accenture

L’operazione va ben oltre il semplice ampliamento delle competenze: rappresenta un consolidamento della presenza di Accenture nei settori strategici per la sovranità tecnologica europea.

Integrando le capacità di IPS, Accenture potenzia la propria offerta in ambiti ad alto valore aggiunto come i sistemi software-defined, le aerostrutture, i veicoli militari e le piattaforme navali.

Si tratta di un rafforzamento concreto delle capacità progettuali, operative e di supporto tecnico nei confronti di grandi programmi nazionali ed europei, in un contesto geopolitico che richiede maggiore autonomia tecnologica e resilienza industriale.

Come ha sottolineato Teodoro Lio, Amministratore Delegato di Accenture Italia, “l’espansione con nuove competenze specialistiche in ingegneria della difesa, combinate con la nostra intimità con le tecnologie, l’intelligenza artificiale e i dati, dà vita a una realtà unica a disposizione della trasformazione delle industrie del settore”.

Sviluppo industriale e continuità occupazionale

La scelta di SIPAL di cedere l’area IPS ad Accenture va letta anche come una valorizzazione del know-how italiano in un contesto globale. Come dichiarato da Ignazio Dogliani, CEO di SIPAL, l’operazione apre a nuove opportunità di crescita per il team IPS e garantisce continuità in termini occupazionali, potenziando al tempo stesso la proiezione internazionale delle competenze maturate nel nostro Paese.

Continua la crescita di Accenture in Italia

L’acquisizione si inserisce in una traiettoria ormai chiara: dal 2023, Accenture ha completato in Italia sei operazioni strategiche, abbracciando ambiti che vanno dall’intelligenza artificiale (Ammagamma) alle reti 5G (Fibermind), fino alla Pubblica Amministrazione e alla giustizia digitale.

L’ingresso dell’area IPS di SIPAL consolida ulteriormente questa strategia, posizionando l’azienda come un attore determinante nel futuro industriale e tecnologico italiano.

Non sono stati divulgati i dettagli economici dell’operazione, che resta soggetta alle consuete condizioni di chiusura.

In un momento in cui l’Europa punta alla costruzione di una maggiore autonomia tecnologica e industriale, operazioni come questa segnalano il ruolo crescente di Accenture come abilitatore di innovazione nei settori strategici. Un’azienda globale che investe nel talento locale per costruire infrastrutture tecnologiche a prova di futuro.

 

Ecco perché Elon Musk lascia l’amministrazione Trump

Ecco perché Elon Musk lascia l'amministrazione Trump

Dopo 130 giorni si chiude l’incarico di Elon Musk nel governo USA alla guida del DOGE. Un esperimento tra riforme mancate e crisi aziendali, che ridefinisce i confini della sua leadership pubblica.

Elon Musk ha ufficialmente concluso il suo incarico governativo con un annuncio pubblicato sulla piattaforma X.

Un messaggio essenziale, nel quale ha ringraziato per l’opportunità ricevuta e sottolineato l’impegno profuso nel promuovere l’efficienza del governo federale.

Una chiusura che segna la fine di un’esperienza breve ma densa di implicazioni politiche, economiche e non senza polemiche.

Elon Musk e DOGE, incarico a tempo

L’incarico, come previsto dalla normativa federale statunitense, era stato concepito sin dall’inizio come temporaneo. Musk era stato inquadrato come special government employee, una figura prevista per consentire a personalità esterne al governo di collaborare su obiettivi specifici per un massimo di 130 giorni all’anno.

Il suo mandato si è concluso proprio allo scadere di questo limite. Ma la sua uscita arriva anche dopo settimane segnate da crescenti tensioni all’interno dell’amministrazione.

Durante i quattro mesi trascorsi alla guida del DOGE, il Dipartimento per l’Efficienza Governativa, Musk ha lanciato un programma ambizioso di tagli alla spesa pubblica.

Ecco perché Elon Musk lascia l'amministrazione Trump
Ecco perché Elon Musk lascia l’amministrazione Trump

DOGE, un piano molto ambizioso

L’obiettivo dichiarato era ridurre 2.000 miliardi di dollari di sprechi nel bilancio federale. Ma l’effettivo risparmio ottenuto si è fermato a circa 150 miliardi. Il divario tra l’intenzione iniziale e il risultato finale ha evidenziato quanto sia complesso intervenire nella macchina statale con logiche da impresa tecnologica, se non da startup.

Un momento di rottura si è verificato con la pubblicazione della nuova legge di bilancio proposta dal presidente Trump, che ha previsto una spesa complessiva superiore a 6 trilioni di dollari. Musk ha criticato la manovra, ritenendola contraria alla missione del DOGE e accusandola di aggravare il deficit federale. La sua affermazione – “può essere grande o bella, ma non entrambe” – ha sintetizzato un dissenso ormai evidente.

Elon Musk e il difficile momento delle sue aziende

Nel frattempo, le sue aziende affrontavano un periodo difficile.

Tesla ha registrato un calo dei profitti pari al 71% nel primo trimestre del 2025, accompagnato da un crollo delle vendite.

Gli investitori hanno reagito negativamente, percependo l’impegno politico di Musk come una fonte di distrazione e instabilità.

Per non parlare poi delle tensioni aziendali generate dalle posizioni politiche tenute da Musk in questi mesi. In molte occasioni ci sono state speculazioni che parlavano di malumori degli investitori di Tesla intenti a cercare un nuovo CEO.

Elon Musk e il suo esperimento governativo

La conclusione dell’esperienza governativa non rappresenta solo la chiusura di un ruolo formalmente a tempo, ma anche la fine di un esperimento. Musk ha provato a estendere la propria influenza alla sfera istituzionale, portando dentro le logiche del potere pubblico l’approccio rapido e semplificato della cultura tech.

L’esito, almeno in questa fase, è stato parziale. La struttura federale ha mostrato resistenza, le tensioni interne hanno prevalso e le sue aziende hanno sofferto.

Con il ritorno a tempo pieno alla guida delle sue imprese, Musk archivia una parentesi che non ha riformato l’apparato statale, ma ha contribuito a ridefinire i confini della leadership contemporanea. Una leadership che si muove tra tecnologia, mercato e rappresentazione pubblica, generando nuove tensioni tra ciò che si intende per efficienza e ciò che significa visione nel concreto.

La sua uscita dal governo, pur essendo prevista, assume oggi un significato evidente. Il ritorno a una dimensione imprenditoriale che resta centrale nella narrazione globale, ma segnata, in questa fase, da un bilancio governativo in chiaroscuro.

Cos’è AI Mode di Google e come cambia la ricerca online

Cos'è AI Mode di Google e come cambia la ricerca online

Google ha lanciato AI Mode. L’intelligenza artificiale cambia la ricerca online e trasforma l’accesso alle informazioni. Da Search Engine a Answer Engine. Ecco cosa cambia per utenti e creator di contenuti.

Google ha lanciato ufficialmente AI Mode, una nuova modalità di ricerca che in effetti segna un passaggio epocale per l’esperienza utente.

Se fino a ieri per fare le nostre ricerche ragionavamo per parole chiavi e ci affidavamo a una lista di link da esplorare, oggi Google ci propone direttamente una risposta generata dall’intelligenza artificiale. Pronta, contestualizzata e apparentemente completa.

Un cambio di paradigma che potrebbe sembrare tecnico, ma che in realtà ci riguarda direttamente, come creatori di contenuti e come fruitori del motore di ricerca.

L’ingresso di Gemini 2.0 nella ricerca

L’elemento chiave di questa trasformazione è il modello Gemini 2.0, presentato durante il Google I/O 2025. Tutto si basa sui nuovi modelli Gemini 2.5 Pro e Gemini Flash.

Non è semplicemente l’ultimo aggiornamento del sistema. Siamo di fronte a un salto di generazione. Un’intelligenza artificiale multimodale, capace di elaborare e combinare testi, immagini e (presto) anche audio e video.

Questa IA non si limita solo a trovare e restituire contenuti, ma interpretarli, riorganizzarli e restituirli sotto forma di risposta sintetica generata automaticamente, all’interno della pagina di ricerca.

Cos'è AI Mode di Google e come cambia la ricerca online
Cos’è AI Mode di Google e come cambia la ricerca online

Un cambiamento visibile, da Search Engine a Answer Engine

Con AI Mode, la classica SERP, quella che è la la pagina dei risultati cambia volto. In alto, sopra i link tradizionali, compare un blocco interattivo che sintetizza la risposta alla domanda dell’utente. A volte è un riepilogo, altre volte una comparazione, altre ancora una vera e propria spiegazione in stile conversazionale.

Si tratta di un cambiamento che avviene prima ancora di cliccare su qualcosa. Google non mostra più dove trovare l’informazione, ma decide direttamente cosa mostrarci. Questo sulla base della selezione delle fonti sulla base di un valore che oggi diventa sempre più importante, che è quello dell’Autorevolezza.

Possiamo affermare che si passa da una logica “Search Engine” a quella “Answer Engine”. La ricerca si basa sulla domanda e il risultato della ricerca sarà un testo esaustivo in chiave conversazionale.

Senza più bisogno di approfondire visitando link esterni.

Cosa cambia per i creator

Questo nuovo approccio comporta una riflessione urgente anche per chi lavora nel mondo dei contenuti.

Se Google mostra una sintesi generata da IA direttamente in SERP, gli utenti cliccheranno meno sui siti web. E quei contenuti, scritti da professionisti, giornalisti, blogger e aziende, rischiano di diventare solo materiale grezzo per l’addestramento e la sintesi.

La classica ottimizzazione SEO potrebbe non bastare più. L’obiettivo non è solo “essere trovati”, ma essere assorbiti, rielaborati e, si spera, citati.

Una sfida notevole per chi fa dell’accuratezza e della qualità il proprio punto di forza.

La leva della trasparenza

Un altro punto critico riguarda la trasparenza. Le risposte fornite da AI Mode non sempre (e non in grande evidenza) includono le fonti in modo esplicito e completo. L’utente riceve una risposta senza sapere da dove proviene davvero.

Il concetto di fiducia passa quindi attraverso il contenuto che Google ci presenta come affidabile, perché ritenuto “Autorevole”. Ma val la pena sempre fare un minimo di approfondimento e di confronto.

E in un tempo in cui il rischio disinformazione è alto, affidare tutto a una sintesi automatica può diventare un terreno scivoloso.

AI Mode, un assistente nella ricerca online

Google ha sempre cercato di presentarsi come uno strumento neutrale, al servizio dell’utente. Ma con l’introduzione di AI Mode, si trasforma anche in un assistente proattivo, in grado di anticipare, suggerire e decidere per noi.

Il confine tra assistenza e mediazione si fa sempre più sottile. Il rischio è quello di non porci più domande complesse, accontentandoci di risposte confezionate, semplici, coerenti.

Restare sempre consapevoli

L’AI Mode di Google è già attivo per molti utenti e destinato ad espandersi rapidamente. Dietro l’entusiasmo per l’innovazione, c’è la necessità di restare consapevoli di cosa comporta questo cambiamento. Dal ruolo delle fonti, alla visibilità dei contenuti, fino al modo in cui costruiremo il nostro pensiero critico.

Forse stiamo entrando in una nuova era della conoscenza, più veloce ma anche più guidata. E il punto non è resistere, ma capire come restare protagonisti in questo nuovo scenario dettato dalla IA.

[Immagine di copertina realizzata da Franz Russo utilizzando il modello di IA Generativa Chatgpt-4o]

Anche su Threads si possono aggiungere fino a 5 link nella bio

Anche su Threads si possono aggiungere fino a 5 link nella bio"

Threads introduce la possibilità di inserire fino a 5 link nella bio del profilo, ampliando le opportunità per creator e brand. Una funzione già introdotta su Instagram due anni fa.

Threads continua ad evolversi, e lo fa introducendo una funzionalità che potrebbe segnare un nuovo passo verso la maturità della piattaforma. Da oggi è possibile inserire fino a cinque link nella bio del proprio profilo.

Una funzionalità che strizza l’occhio a creator, brand e professionisti, offrendo loro uno strumento in più per rendere più completa e utile la propria presenza sulla piattaforma.

Una possibilità che già conosciamo bene, perché Instagram l’aveva introdotta due anni fa, nel 2023, come scritto in questo articolo: Instagram, è ora possibile inserire fino a 5 link nella bio.

Oggi quella stessa logica viene estesa anche a Threads, in quella che si delinea sempre di più come un’integrazione strategica tra le due piattaforme.

Anche su Threads si possono aggiungere fino a 5 link nella bio
Anche su Threads si possono aggiungere fino a 5 link nella bio

Su Threads una bio più ricca e più utile

L’annuncio è arrivato direttamente da Meta attraverso questo post pubblicato nel mese di marzo, dove si illustrano alcune nuove funzioni pensate per rendere Threads un’esperienza più personalizzata e controllabile da parte dell’utente.

Ma è nelle ultime settimane che questa funzionalità ha cominciato a essere distribuita su larga scala, come confermato da TechCrunch e Social Media Today, tra gli altri.

A cosa serve (davvero) avere più link

Poter inserire più link significa offrire più strade per chi visita il profilo: il link alla newsletter, al sito ufficiale, a un articolo appena pubblicato, a un prodotto, ad un’altra piattaforma.

Una strategia che aiuta i creator a non essere costretti a scegliere e a non dipendere da soluzioni esterne come Linktree o simili.

L’interfaccia per aggiungere i link è semplice e intuitiva. Si va su “Modifica profilo” e si può aggiungere, come ricordato prima, fino a cinque link, ciascuno con una breve descrizione.

Una funzione pensata per chi crea contenuti

Oltre alla possibilità di aggiungere più link, Meta ha anche introdotto strumenti di analisi per monitorare il numero di clic che ogni link riceve.

È una novità importante soprattutto per chi lavora in ottica di performance e engagement, perché consente di capire quali contenuti funzionano meglio e come ottimizzare le strategie di pubblicazione.

Threads, una direzione sempre più chiara

Threads, lanciata come piattaforma “testuale” in risposta all’evoluzione (o involuzione) di X, sta trovando, piano piano, una sua identità.

Non è solo il luogo dove si può postare, ma sta diventando sempre più, tra mille cose ancora da sistemare, uno spazio utile per comunicare in modo professionale, per integrare diversi canali e per offrire valore a chi ci segue.

L’apertura ai 5 link nella bio è solo un tassello, ma dice molto sulla visione a medio termine. E cioè rendere Threads più flessibile, più utile e più integrata in un ecosistema, quello di Meta, che vuole trattenere utenti e creator offrendo loro sempre più strumenti.

La IA e il lavoro umano, i casi Duolingo e Klarna

La IA e il lavoro umano, i casi Duolingo e Klarna

Duolingo taglia il lavoro umano, Klarna lo reintegra. Due scelte opposte e una verità, e cioè che l’IA da sola non basta. Due casi della stessa medaglia del rapporto tra uomo e macchina.

Sicuramente ricorderete il caso Duolingo, di cui abbiamo parlato. L’azienda, nota per l’apprendimento delle lingue, ha scelto di diventare una realtà AI-first, decidendo di non rinnovare le collaborazioni esterne, in particolare con traduttori e revisori, per affidarsi completamente all’intelligenza artificiale nella produzione dei contenuti.

Un passaggio netto per l’azienda, per cui l’IA diventa asse strategico per crescere, ridurre tempi e costi, e dare continuità alla visione dell’azienda. Ai collaboratori interni viene proposta formazione e coaching per aggiornare le competenze e gestire, di fatto, il controllo umano a valle del processo automatico. Ma è chiaro fin da subito che il centro della produzione si è spostato verso la macchina.

Questo caso ha fatto discutere. Perché, da quando l’intelligenza artificiale generativa è entrata in scena in modo dirompente, si è tornati ciclicamente su un riflesso condizionato: la macchina sostituirà il lavoro umano?

Ma la situazione attuale è ben diversa da questa narrazione semplicistica. No, la macchina non può sostituire l’uomo. Non oggi. E probabilmente, non domani.

Ridurre il dibattito a uno scontro secco tra uomo e macchina, senza considerare il contesto, la complessità e le responsabilità, significa perdere una parte importante della riflessione. Ed è proprio qui che si inserisce il secondo caso di cui voglio parlarvi oggi. E cioè Klarna.

La IA e il lavoro umano, i casi Duolingo e Klarna
La IA e il lavoro umano, i casi Duolingo e Klarna

Caso Klarna, un passo indietro per fare chiarezza

Klarna, azienda svedese attiva nel settore dei pagamenti online, è diventata nota anche per il suo sistema di dilazione integrata al checkout. Ma la notizia che ci interessa è un’altra. Dopo un anno e mezzo di utilizzo intensivo dell’IA nel servizio clienti, con un’efficienza dichiarata del 75%, l’azienda fa un passo indietro.

Tutto il customer care era stato affidato a un assistente virtuale basato su OpenAI, in grado di gestire richieste in oltre 35 lingue. Un’infrastruttura che, sulla carta, funzionava alla perfezione.

Ma l’esperienza ha mostrato un’altra realtà. L’aumento delle lamentele da parte degli utenti, un calo della qualità del servizio e, soprattutto, l’assenza di empatia. Perché sì, l’intelligenza artificiale non è empatica.
E l’empatia, nel servizio clienti, non è un optional.

Alla luce di tutto questo, Klarna ha rivisto la sua strategia. L’intelligenza artificiale non viene abbandonata, ma affiancata da un ritorno dell’interazione umana, con l’obiettivo di garantire un’assistenza più completa, capace di rispondere anche ai casi più delicati o complessi.

Un ribaltamento che porta a dire che non è l’uomo a cedere il passo all’IA, ma ancora oggi è l’IA ad avere bisogno dell’uomo per funzionare davvero.

L’IA non è cosciente e non potrà sostituire l’essere umano

In una delle puntate di ConversazioniAI, il format che conduco ogni lunedì alle 19 insieme a Federica Attore, è intervenuta la scienziata Mirella Mastretti, esperta di intelligenza artificiale. E in modo molto chiaro ha ricordato un punto fondamentale. L’IA non è in grado di sostituire l’uomo. E non lo sarà nel prossimo futuro.

Perché? Perché non ha consapevolezza di sé, non ha coscienza, non ha desideri né intenzioni.
E il giorno in cui dovesse acquisirli, ipotesi puramente teorica al momento, parleremmo di qualcosa di molto diverso da ciò che oggi intendiamo per “intelligenza artificiale generativa”. Un giorno che, allo stato attuale, non è affatto realistico.

Due facce della stessa medaglia

I casi di Duolingo e Klarna ci raccontano la stessa storia da due punti di vista opposti.
Da una parte, la macchina che avanza, sostituendo il lavoro umano. Dall’altra, la macchina che si ferma, riconoscendo i suoi limiti.

Entrambe le aziende stanno cercando la strategia più efficace per integrare l’IA nei propri processi. Non è una questione ideologica. Si tratta di una questione di sostenibilità, di efficienza, ma anche di qualità, fiducia, empatia, relazione.

Ecco perché serve un approccio più profondo, più lucido e meno superficiale.
Non basta dire “funziona” o “non funziona”. Ogni azienda, e ogni professionista, è chiamato a valutare come adottare l’IA nel modo più responsabile e controllato possibile, mantenendo il presidio umano come elemento indispensabile.

Perché la verità è più semplice di quella che siamo portati a considerare. L’IA generativa ha ancora, e lo sarà ancora a lungo, bisogno dell’intelligenza umana.
E questo, al netto di ogni entusiasmo tecnologico, è un dato di fatto.

Papa Leone XIV di fronte alle sfide di IA, digitale ed etica

Papa Leone XIV di fronte alle sfide di IA, digitale ed etica

Con l’elezione di Papa Leone XIV si apre una nuova fase per la Chiesa. Da osservare quale sarà il rapporto del nuovo pontefice con IA, digitale ed etica dopo l’eredità di Papa Francesco.

Ieri, 8 maggio 2025, la Chiesa cattolica ha voltato pagina. La fumata bianca, apparsa alle 18:07 dalla Cappella Sistina, ha annunciato al mondo che il nuovo Papa, eletto dopo due giorni di Conclave, è Robert Francis Prevost, ora Leone XIV, primo Pontefice della storia proveniente dagli Usa, da Chicago per la precisione.

Un nome che richiama Leone XIII, il Papa che con l’enciclica Rerum Novarum diede inizio alla Dottrina sociale della Chiesa, con un’attenzione esplicita alla dignità del lavoro.

E oggi, in un mondo segnato dalla rivoluzione dell’intelligenza artificiale, non è un richiamo casuale.

Questo passaggio di testimone rappresenta un momento simbolico, ma anche molto concreto, per riflettere su come la Chiesa affronterà le grandi trasformazioni in corso, a partire da quelle che riguardano le tecnologie emergenti, il digitale e l’IA.

Temi, come sappiamo, che Papa Francesco ha sempre affrontato con grande lucidità e responsabilità etica, lasciando un’impronta ben visibile in ogni suo intervento pubblico sull’argomento.

Papa Leone XIV di fronte alle sfide di IA, digitale ed etica
Papa Leone XIV di fronte alle sfide di IA, digitale ed etica

L’attenzione costante di Papa Francesco al digitale e alla IA

In un articolo pubblicato su questo blog in occasione del suo addio, ho definito Papa Francesco come il primo vero Papa dell’era dei social media.

Non solo per l’uso attivo dei canali digitali, ma per la capacità di comprenderne i meccanismi, le derive e le potenzialità. Durante il suo pontificato, ha parlato apertamente delle dinamiche di polarizzazione che attraversano le piattaforme, del rischio di esclusione digitale, e più di recente, della necessità urgente di una governance etica dell’intelligenza artificiale.

Proprio nel 2023, Papa Francesco aveva indicato l’IA come una delle grandi sfide morali del nostro tempo, sottolineando la responsabilità collettiva nel suo sviluppo. La scelta del tema dell’IA e della pace per la Giornata Mondiale della Pace 2024 ne è stata una chiara conferma. Un Papa che ha saputo tenere insieme spirito e tecnologia, etica e futuro.

Papa Leone XIV: un nome evocativo

Il cardinale Prevost, ora Leone XIV, non ha ancora rilasciato dichiarazioni ufficiali sull’IA da Papa. Ma ci sono già alcuni segnali che meritano attenzione.

La scelta del nome – Leone – non è solo un omaggio a un predecessore, ma un gesto carico di significato. Come ha dichiarato il direttore della Sala stampa vaticana, Matteo Bruni, la scelta richiama esplicitamente “gli uomini, le donne e i lavoratori” in un’epoca segnata dall’intelligenza artificiale, in riferimento al pensiero sociale di Leone XIII.

Inoltre, da cardinale, Prevost ha mostrato attenzione alle questioni sociali e morali del nostro tempo, intervenendo anche attraverso i social media.

In particolare, ha dimostrato di comprendere la complessità dell’uso pubblico della parola in rete, prendendo posizione contro semplificazioni pericolose e retoriche identitarie.

Una sensibilità che, se traslata nel ruolo di Pontefice, potrebbe tradursi in una visione chiara sul ruolo delle tecnologie nei rapporti umani e nella costruzione di comunità.

La sfida di una Chiesa che cammina anche nel digitale

Siamo ancora all’inizio di questo nuovo pontificato, ma è già evidente che la posta in gioco non riguarda solo il futuro della Chiesa, bensì il suo rapporto con un mondo radicalmente trasformato dal digitale.

Le piattaforme digitali, l’intelligenza artificiale generativa, i modelli linguistici, gli algoritmi che condizionano l’informazione e le relazioni, sono oggi questioni politiche che toccano anche le comunità spirituali.

Sarà interessante vedere se Leone XIV manterrà quell’atteggiamento di apertura critica e dialogante che ha caratterizzato Papa Francesco, oppure se darà una nuova impronta, magari più orientata alla concretezza dell’azione sociale e alla protezione della dignità umana nell’era degli automatismi.

L’eredità di Francesco potrebbe continuare

Papa Francesco lascia un’eredità forte sul fronte della comunicazione, della responsabilità etica e della presenza consapevole nel digitale. E oggi, con Leone XIV, si apre una fase nuova che potrebbe consolidare quanto fatto finora o reinterpretarlo alla luce delle sfide future.

In ogni caso, sarà fondamentale continuare a osservare da vicino le parole e i gesti di questo nuovo Papa rispetto all’innovazione tecnologica, alla giustizia sociale e al ruolo dell’informazione.

Perché oggi, più che mai, la spiritualità si misura anche nella capacità di saper affrontare criticamente il presente digitale.

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