Con l’elezione di Papa Leone XIV si apre una nuova fase per la Chiesa. Da osservare quale sarà il rapporto del nuovo pontefice con IA, digitale ed etica dopo l’eredità di Papa Francesco.
Ieri, 8 maggio 2025, la Chiesa cattolica ha voltato pagina. La fumata bianca, apparsa alle 18:07 dalla Cappella Sistina, ha annunciato al mondo che il nuovo Papa, eletto dopo due giorni di Conclave, è Robert Francis Prevost, ora Leone XIV, primo Pontefice della storia proveniente dagli Usa, da Chicago per la precisione.
Un nome che richiama Leone XIII, il Papa che con l’enciclica Rerum Novarum diede inizio alla Dottrina sociale della Chiesa, con un’attenzione esplicita alla dignità del lavoro.
E oggi, in un mondo segnato dalla rivoluzione dell’intelligenza artificiale, non è un richiamo casuale.
Questo passaggio di testimone rappresenta un momento simbolico, ma anche molto concreto, per riflettere su come la Chiesa affronterà le grandi trasformazioni in corso, a partire da quelle che riguardano le tecnologie emergenti, il digitale e l’IA.
Temi, come sappiamo, che Papa Francesco ha sempre affrontato con grande lucidità e responsabilità etica, lasciando un’impronta ben visibile in ogni suo intervento pubblico sull’argomento.
Papa Leone XIV di fronte alle sfide di IA, digitale ed etica
L’attenzione costante di Papa Francesco al digitale e alla IA
Non solo per l’uso attivo dei canali digitali, ma per la capacità di comprenderne i meccanismi, le derive e le potenzialità. Durante il suo pontificato, ha parlato apertamente delle dinamiche di polarizzazione che attraversano le piattaforme, del rischio di esclusione digitale, e più di recente, della necessità urgente di una governance etica dell’intelligenza artificiale.
Proprio nel 2023, Papa Francesco aveva indicato l’IA come una delle grandi sfide morali del nostro tempo, sottolineando la responsabilità collettiva nel suo sviluppo. La scelta del tema dell’IA e della pace per la Giornata Mondiale della Pace 2024 ne è stata una chiara conferma. Un Papa che ha saputo tenere insieme spirito e tecnologia, etica e futuro.
Papa Leone XIV: un nome evocativo
Il cardinale Prevost, ora Leone XIV, non ha ancora rilasciato dichiarazioni ufficiali sull’IA da Papa. Ma ci sono già alcuni segnali che meritano attenzione.
Inoltre, da cardinale, Prevost ha mostrato attenzione alle questioni sociali e morali del nostro tempo, intervenendo anche attraverso i social media.
In particolare, ha dimostrato di comprendere la complessità dell’uso pubblico della parola in rete, prendendo posizione contro semplificazioni pericolose e retoriche identitarie.
Una sensibilità che, se traslata nel ruolo di Pontefice, potrebbe tradursi in una visione chiara sul ruolo delle tecnologie nei rapporti umani e nella costruzione di comunità.
La sfida di una Chiesa che cammina anche nel digitale
Siamo ancora all’inizio di questo nuovo pontificato, ma è già evidente che la posta in gioco non riguarda solo il futuro della Chiesa, bensì il suo rapporto con un mondo radicalmente trasformato dal digitale.
Le piattaforme digitali, l’intelligenza artificiale generativa, i modelli linguistici, gli algoritmi che condizionano l’informazione e le relazioni, sono oggi questioni politiche che toccano anche le comunità spirituali.
Sarà interessante vedere se Leone XIV manterrà quell’atteggiamento di apertura critica e dialogante che ha caratterizzato Papa Francesco, oppure se darà una nuova impronta, magari più orientata alla concretezza dell’azione sociale e alla protezione della dignità umana nell’era degli automatismi.
L’eredità di Francesco potrebbe continuare
Papa Francesco lascia un’eredità forte sul fronte della comunicazione, della responsabilità etica e della presenza consapevole nel digitale. E oggi, con Leone XIV, si apre una fase nuova che potrebbe consolidare quanto fatto finora o reinterpretarlo alla luce delle sfide future.
In ogni caso, sarà fondamentale continuare a osservare da vicino le parole e i gesti di questo nuovo Papa rispetto all’innovazione tecnologica, alla giustizia sociale e al ruolo dell’informazione.
Perché oggi, più che mai, la spiritualità si misura anche nella capacità di saper affrontare criticamente il presente digitale.
TikTok è stata multata per 530 milioni di euro dall’UE per aver trasferito impropriamente dati degli utenti in Cina, violando il GDPR. Un caso che riaccende il dibattito sulla privacy.
Il motivo? Un’inchiesta durata quattro anni ha accertato che l’azienda ha trasferito impropriamente dati degli utenti europei in Cina, senza rispettare quanto previsto dal GDPR. Una sanzione pesante, che si inserisce in un contesto di crescente diffidenza verso la piattaforma di proprietà del colosso cinese ByteDance.
Una delle multe più alte mai comminate sotto il GDPR
A decidere la sanzione è stata la Data Protection Commission (DPC) irlandese, autorità capofila per TikTok in quanto la sede europea dell’azienda si trova a Dublino.
Dopo un’indagine avviata nel settembre 2021, la DPC ha stabilito che TikTok ha violato l’articolo 44 del Regolamento generale sulla protezione dei dati, che impone regole molto rigide sui trasferimenti verso paesi terzi.
Nello specifico, è stato accertato che TikTok ha consentito l’accesso remoto ai dati degli utenti europei da parte di dipendenti e personale tecnico con sede in Cina, senza adottare misure sufficienti a garantire un livello di protezione “equivalente” a quello previsto dalla normativa europea.
“Agli utenti europei non è stato garantito un livello di protezione sostanzialmente equivalente a quello garantito all’interno dell’UE“, ha affermato in una nota Graham Doyle, vice commissario della Commissione irlandese per la protezione dei dati.
Si tratta della terza multa più elevata mai inflitta nell’ambito del GDPR, dopo quelle a Meta (1,2 miliardi di euro) e Amazon (746 milioni di euro). E, per TikTok, non è nemmeno la prima: nel 2023 era già stata sanzionata con una multa da 345 milioni di euro per violazioni legate al trattamento dei dati dei minori.
TikTok, multa dall’UE per trasferimento di dati in Cina
Il cuore della questione: i dati trasferiti in Cina
A preoccupare le autorità europee è soprattutto il fatto che i dati degli utenti – compresi quelli di giovani e giovanissimi – siano potenzialmente accessibili da un paese, la Cina, i cui standard legali e di tutela della privacy sono molto diversi da quelli europei.
La legge cinese sulla sicurezza nazionale, infatti, impone alle aziende di collaborare con il governo qualora richiesto, anche in termini di accesso ai dati. E questo, per i regolatori europei, rappresenta un rischio concreto per la protezione delle informazioni personali.
TikTok ha inizialmente negato che i dati degli utenti europei fossero conservati o accessibili dalla Cina. Ma nel febbraio 2025 ha ammesso che una “quantità limitata” di dati era effettivamente archiviata in territorio cinese, contraddicendo quanto dichiarato fino a quel momento. Un elemento che ha avuto un peso determinante nelle conclusioni della DPC.
Il nodo della trasparenza: cosa non è stato detto agli utenti
Un altro punto su cui si è concentrata l’indagine riguarda la trasparenza. Secondo quanto accertato, TikTok non ha informato in modo chiaro gli utenti che i loro dati potevano essere trasferiti e trattati in Cina. Nella sua informativa sulla privacy, infatti, il paese non veniva menzionato in maniera esplicita.
Non solo. L’indagine ha evidenziato che TikTok non ha condotto un’adeguata valutazione dei rischi legati a questi trasferimenti, né ha messo in atto misure tecniche e organizzative sufficienti per tutelare i dati.
Ora la piattaforma ha sei mesi di tempo per mettersi in regola, altrimenti rischia la sospensione del trasferimento dei dati verso la Cina.
TikTok risponde: “La decisione si riferisce al passato”
TikTok ha fatto sapere di non condividere le conclusioni della DPC e di voler presentare ricorso. Ha inoltre sottolineato che la decisione si basa su pratiche risalenti a prima del maggio 2023, ossia prima dell’implementazione del cosiddetto Project Clover.
Si tratta di un programma da 12 miliardi di euro con cui TikTok mira a rassicurare le autorità europee. Tra le misure previste, la costruzione di tre data center nel continente, una revisione dei protocolli di accesso ai dati e un sistema di audit indipendenti sulla gestione delle informazioni personali.
“Questa sentenza rischia di creare un precedente con conseguenze di vasta portata per le aziende e interi settori in tutta Europa che operano su scala globale“, ha affermato TikTok in una nota.
Un’operazione che, al di là del tentativo di salvaguardare la propria immagine, dimostra quanto il tema del trattamento dei dati stia diventando centrale anche per una piattaforma cresciuta grazie alla leggerezza dei suoi contenuti.
Una decisione che fu seguita a ruota anche da altri organismi comunitari e da diversi governi nazionali. Da allora, la pressione su TikTok non si è mai realmente allentata.
E adesso, con questa multa, l’Unione Europea manda un segnale chiaro. E cioè che il trattamento dei dati personali non è negoziabile. Tanto più quando si parla di minorenni, e quando i dati rischiano di finire sotto la giurisdizione di paesi che non offrono garanzie equivalenti a quelle europee.
Perché questa vicenda è importante
Questa vicenda non è soltanto una questione squisitamente giuridica. È una questione di fiducia. E, nel mondo digitale – lo abbiamo imparato bene in questi anni – la fiducia è tutto.
Il modo in cui le piattaforme trattano i dati degli utenti – cosa raccolgono, dove li conservano, chi può accedervi – definisce il perimetro entro cui possiamo ancora sentirci “cittadini” e non solo “consumatori”.
E TikTok, oggi, è chiamata a scegliere quale strada vuole davvero percorrere. Non solo per evitare sanzioni, ma per dimostrare se è disposta a rispettare, davvero, le regole del gioco europeo.
Dopo 500 giorni di silenzio dall’apertura dell’indagine europea su X, venti deputati UE scrivono alla Commissione: bias algoritmico, disinformazione e rischio per la democrazia al centro della lettera.
Sono passati 500 giorni da quando l’Unione Europea ha aperto un’indagine formale contro X, la piattaforma di proprietà di Elon Musk, per presunte violazioni del Digital Services Act (DSA). Da allora, silenzio. Nessuna comunicazione ufficiale, nessun provvedimento. Solo un’attesa che si fa ora sempre più difficile da giustificare.
“A partire da domani, 1° maggio 2025, saranno trascorsi esattamente 500 giorni dall’inizio dell’indagine, e la mancanza di un esito conclusivo risulta sempre più allarmante”, si legge nelle prime righe della lettera”.
Un documento diretto, dettagliato e ben strutturato, che rappresenta non solo un richiamo politico, ma anche una denuncia chiara su quanto sta accadendo all’interno di X.
X nel mirino dell’UE, la lettera dei deputati europei
Il contesto: un’indagine lunga e silenziosa
Il procedimento formale era stato annunciato dalla Commissione Europea il 18 dicembre 2023. Le violazioni contestate erano numerose: mancanza di trasparenza algoritmica, gestione opaca dei contenuti, disinformazione, e gravi carenze nel contrasto ai contenuti illegali.
A distanza di oltre un anno e mezzo, la situazione non solo non è cambiata, ma secondo numerose ricerche e inchieste giornalistiche sarebbe addirittura peggiorata. In aprile, il New York Times ha anticipato che la Commissione potrebbe comminare una multa da oltre 1 miliardo di euro, innescando una nuova fase di tensioni tra Bruxelles e Washington.
La lettera dei deputati europei si inserisce proprio in questo vuoto normativo e comunicativo, chiedendo risposte precise e immediate.
Le accuse: bias algoritmico, manipolazione politica, opacità
“Ricerche indicano un possibile bias algoritmico su X che favorirebbe in modo sproporzionato contenuti dell’estrema destra e amplificherebbe i post del proprietario della piattaforma.”
E non si tratta solo di Stati Uniti. La lettera denuncia anche interferenze nei processi elettorali europei, citando:
il sostegno pubblico di Musk al partito tedesco di estrema destra AfD;
una campagna di disinformazione contro il primo ministro britannico Keir Starmer;
la diffusione virale di fake news durante i disordini a Dublino nel novembre 2023;
la difesa pubblica di Musk del candidato romeno di estrema destra Călin Georgescu, squalificato per interferenze russe.
Tutti episodi che, messi in fila, delineano un pattern molto chiaro: X non è più solo una piattaforma neutrale, ma uno strumento che può distorcere il discorso pubblico e minare i processi democratici.
Le richieste: risposte concrete dalla Commissione
I deputati non si limitano a esprimere preoccupazione: chiedono risposte dettagliate e operative su otto punti fondamentali. Tra questi:
Trasparenza algoritmica – che risultati sono emersi dalle indagini tecniche inviate a X a gennaio 2025?
Valutazione dei rischi elettorali – è stato consegnato il report di rischio previsto dal DSA? Quali misure si intendono adottare prima del prossimo ciclo elettorale?
Misure provvisorie – la Commissione intende intervenire con sanzioni o sospensioni se X continuerà a disattendere le richieste?
Audit indipendente – l’audit esterno previsto è già stato avviato? Quando saranno resi pubblici i risultati?
Tempistiche procedurali – qual è il calendario previsto per i prossimi passaggi, fino a una decisione finale?
A queste domande se ne aggiungono altre di carattere generale, tutte volte a capire se la Commissione sia davvero pronta a far rispettare le regole del Digital Services Act.
Una questione che riguarda la tenuta democratica
La lettera si chiude con un richiamo forte ai principi fondanti dell’Unione Europea:
“L’integrità dei nostri processi democratici e l’applicazione delle normative europee sono in gioco. Confidiamo che la Commissione agirà con decisione per difendere questi principi.”
Difficile non condividere questo appello. Dopo 500 giorni di attesa, e con una mole crescente di indizi, inchieste e dati, la credibilità del DSA come strumento di regolazione dipende dalla risposta che Bruxelles sarà in grado di offrire.
In un contesto in cui le piattaforme digitali non sono più solo spazi di espressione, ma strumenti di potere, la richiesta dei deputati europei suona come un richiamo non solo al rispetto della legge, ma alla tutela della democrazia stessa.
Duolingo ha annunciato una svolta “AI-first”: meno collaboratori esterni, più automazione nei processi e nuovi criteri per assunzioni e valutazioni. Un segnale concreto di un cambiamento profondo nel rapporto tra IA e lavoro umano. Cosa comporta davvero questa decisione?
Duolingo, popolare piattaforma per l’apprendimento delle lingue, ha comunicato ai dipendenti un importante cambio di rotta: la società diventerà “AI-first” (cioè darà priorità all’intelligenza artificiale) e smetterà gradualmente di utilizzare collaboratori esterni per i compiti che l’IA è in grado di svolgere.
L’annuncio, diffuso dal co-fondatore e CEO Luis von Ahn in un’email interna poi pubblicata su LinkedIn, sottolinea la necessità di “ripensare gran parte del nostro modo di lavorare” nell’era dell’IA.
In altre parole, i piccoli aggiustamenti ai metodi tradizionali non bastano più. Occorre una revisione più radicale dei processi per sfruttare appieno le nuove tecnologie.
Nella comunicazione ai dipendenti, von Ahn ha delineato alcune misure concrete per guidare questa transizione “AI-first”:
Stop a collaborazioni esterne: Duolingo smetterà di usare collaboratori esterni per le attività che possono essere gestite dall’IA.
IA come requisito nelle assunzioni: l’uso efficace dell’IA diventerà un fattore valutato nelle nuove assunzioni.
Valutazioni di performance con l’IA: l’abilità di utilizzare l’IA inciderà anche sulle revisioni delle performance dei dipendenti esistenti.
Assunzioni solo se l’IA non basta: nuovi inserimenti in organico (headcount) saranno approvati solo se un team non può automatizzare di più il proprio lavoro.
Riorganizzazione dei processi: ogni area dell’azienda lancerà iniziative specifiche per cambiare alla radice il modo di operare, integrando l’IA dove possibile.
Lavoro e intelligenza artificiale, il caso duolingo
Le motivazioni di Duolingo: efficienza e mission aziendale
L’obiettivo dichiarato è piuttosto “rimuovere colli di bottiglia” e liberare il potenziale del personale, permettendo ai team di “concentrarsi su lavoro creativo e problemi reali, non su compiti ripetitivi”. Per riuscirci, l’azienda promette formazione, mentorship e strumenti AI adeguati a tutti i livelli, così che i dipendenti possano aggiornare le proprie competenze.
Dal punto di vista strategico, Duolingo vede nell’IA un mezzo per accelerare la sua mission educativa. “L’IA non è solo un incremento di produttività. Ci aiuta ad avvicinarci alla nostra missione”, afferma von Ahn.
La piattaforma offre corsi in decine di lingue e per insegnare efficacemente ha bisogno di una quantità enorme di contenuti, dagli esercizi alle traduzioni. Creare tutto manualmente richiederebbe anni: “farlo a mano non è scalabile… senza l’IA ci vorrebbero decenni per offrire questi contenuti a tutti i nostri studenti. Abbiamo il dovere di fornire loro questo materiale il prima possibile”.
In quest’ottica, l’adozione di sistemi AI serve a scalare l’offerta didattica in modo rapido, raggiungendo più utenti senza sacrificare la qualità dell’insegnamento. L’azienda paragona questa scelta a quando, nel 2012, decise di puntare tutto sul mobile prima di altri: allora fu la chiave del suo successo, e oggi la nuova piattaforma da cavalcare è l’Intelligenza Artificiale.
La collaborazione con ChatGPT
Negli ultimi anni la società ha integrato diverse soluzioni di IA generativa all’interno della sua app per migliorare l’esperienza utente. Già a marzo 2023, ad esempio, Duolingo ha annunciato una partnership con OpenAI per sfruttare GPT-4, lanciando un piano in abbonamento chiamato Duolingo Max.
Oltre alle funzioni rivolte direttamente agli studenti, Duolingo sta usando l’IA anche dietro le quinte, per creare e tradurre i contenuti didattici. Un portavoce dell’azienda ha confermato che Duolingo ha intensificato gli investimenti in strumenti di AI generativa come ChatGPT e ora li impiega per produrre contenuti a un ritmo molto più veloce di prima.
In concreto, la società ha iniziato a generare automaticamente frasi, dialoghi ed esercizi nella lingua di destinazione, attività che in precedenza richiedevano il lavoro paziente di traduttori e linguisti umani. L’IA viene addestrata sul vasto patrimonio di dati linguistici di Duolingo e poi supervisionata da esperti in carne e ossa per assicurare che le traduzioni e gli esempi siano accurati e naturali.
Proprio questa automazione ha consentito a Duolingo di ridurre il bisogno di traduttori umani esterni, aprendo la strada al taglio dei contratti annunciato di recente. Von Ahn ha citato come “una delle migliori decisioni recenti” quella di aver sostituito un processo lento e manuale di creazione dei contenuti con uno alimentato dall’IA, grazie al quale si possono proporre materiali che prima avrebbero richiesto anni di lavoro.
Inoltre, l’IA sta sbloccando nuove funzionalità: il CEO ha rivelato che stanno sviluppando funzionalità innovative (come una modalità “Video Call” educativa) che prima erano “impossibili da realizzare senza le capacità dell’AI”.
Impatto su lavoratori interni ed esterni: nuove competenze
La scelta di abbracciare l’AI-first ha ricadute dirette sul personale di Duolingo, sia interno che esterno.
Sul fronte degli impiegati a tempo indeterminato, l’azienda assicura che nessuno perderà il posto in favore di un robot. L’idea è di far evolvere i ruoli, non di eliminarli. Anzi, i vertici insistono che i loro “Duos” (dipendenti) sono e saranno valorizzati, liberati dai compiti noiosi e supportati nel l’apprendimento delle nuove tecnologie.
È chiaro che le nuove assunzioni saranno più selettive. D’ora in poi chi entra in azienda dovrà dimostrare di saper sfruttare l’IA come acceleratore del proprio lavoro, poiché questa abilità diventa un’aspettativa di base (lo stesso concetto è stato ribadito di recente anche dal CEO di Shopify).
Anche le valutazioni del personale esistente cambieranno. Usare l’IA efficacemente farà parte dei criteri di performance, spingendo tutti a integrare questi strumenti nel flusso di lavoro quotidiano. In sintesi, in Duolingo il collaboratore ideale è destinato a diventare un “operatore aumentato dall’IA”, capace di moltiplicare la propria produttività affiancando al proprio know-how umano le capacità delle macchine.
Diverso è il discorso per i lavoratori esterni e collaboratori a progetto, che sono i primi a subire i tagli.
Ciò non toglie che il risultato sia stato un alleggerimento dell’organico esterno: meno traduttori umani e più traduzioni affidate all’IA.
Un ex-collaboratore, che aveva lavorato per Duolingo per cinque anni, ha raccontato in un post diventato virale su Reddit come il suo team di quattro traduttori sia stato ridotto a due persone dopo questa svolta strategica.
I pochi traduttori rimasti ora hanno principalmente il compito di revisionare i contenuti generati dall’intelligenza artificiale, controllando che siano accettabili e correggendo eventuali errori.
Questa testimonianza illustra bene la nuova situazione. L’IA produce la bozza iniziale di esercizi e traduzioni, mentre l’occhio umano interviene come supervisore di qualità.
Per i lavoratori coinvolti, interni o esterni che siano, la transizione non è indolore. Adattarsi significa acquisire competenze completamente nuove, cambiare abitudini e — comprensibilmente — affrontare l’incertezza sul proprio futuro professionale.
Duolingo insiste che il cambiamento sarà positivo e di stimolo per i dipendenti, ma c’è chi teme che, in prospettiva, una volta superati i “colli di bottiglia” iniziali, l’azienda possa scoprire di poter fare a meno di un numero crescente di persone. Del resto, la politica sulle nuove assunzioni (“prima prova con l’IA, poi eventualmente aggiungi una persona”) fa intuire che la crescita dell’organico umano rallenterà, puntando invece su soluzioni automatizzate.
Luis von Ahn, cofounder e CEO Duolingo
Reazioni e opinioni: entusiasmo per l’innovazione o rischio per il lavoro?
La notizia della svolta AI-first di Duolingo ha scatenato dibattiti accesi all’esterno, tra esperti del settore, utenti e gli stessi collaboratori coinvolti. Sui social media e forum online molte voci si sono levate criticando l’azienda per la decisione di sostituire i traduttori con “robot”.
Nel thread Reddit citato in precedenza, la maggioranza dei commenti esprimeva sdegno per l’operato di Duolingo, mostrando solidarietà verso i contrattisti lasciati a casa. Alcuni utenti hanno accusato la piattaforma di tradire la propria filosofia, dal momento che Duolingo ha sempre fatto leva su contenuti creati (e voci registrate) da madrelingua umani per garantire autenticità nelle lezioni.
Affidarsi ora alle traduzioni automatiche potrebbe, secondo questi critici, indebolire la qualità didattica e l’affidabilità percepita del prodotto.
Altri osservatori, pur dispiaciuti per la perdita di posti di lavoro, hanno inserito la vicenda in un contesto più ampio. “Vedremo storie del genere quasi ogni giorno. Renderà tutto molto più difficile per le persone che cercano di costruirsi una carriera” commenta amaramente un utente, alludendo al fatto che il trend di rimpiazzare lavoratori con alternative più veloci ed economiche basate sull’IA sta diventando generalizzato.
Il dibattito è aperto. Da un lato c’è chi accoglie con entusiasmo l’uso dell’IA per aumentare l’efficienza e liberare la creatività umana dai lavori noiosi; dall’altro c’è chi mette in guardia dai rischi sociali (disoccupazione, precarizzazione, perdita di competenze artigianali) e dai limiti attuali dell’IA stessa, che non può ancora sostituire pienamente il giudizio e la sensibilità umana.
Implicazioni per il settore tech e il futuro del lavoro con l’IA
L’approccio “AI-first” sposato da Duolingo solleva interrogativi importanti sul futuro del lavoro nell’industria tecnologica (e non solo). Se un tempo l’automazione minacciava soprattutto impieghi manuali o di catena di montaggio, l’avanzata dell’IA generativa punta direttamente a mansioni cognitive e creative, come scrivere testi, tradurre, programmare, progettare grafica e persino prendere decisioni basate su dati.
Il caso Duolingo mostra che le aziende sono sempre più disposte a ridefinire i ruoli professionali attorno a ciò che l’IA sa fare meglio, assegnando alle persone compiti dove il valore aggiunto umano è insostituibile (strategia, creatività, empatia, supervisione qualitativa).
In quest’ottica, potremmo assistere alla nascita di nuovi profili professionali, come l’esperto in prompt e IA (il cui lavoro è guidare e controllare i sistemi intelligenti), ma anche alla scomparsa graduale di figure tradizionali qualora le macchine dimostrino di poterle rimpiazzare in modo soddisfacente.
Per il settore tech, abbracciare l’IA in modo così pervasivo può portare un salto di produttività e innovazione. Duolingo, ad esempio, conta di sviluppare funzionalità didattiche rivoluzionarie e di moltiplicare i contenuti offerti grazie all’IA, guadagnando un vantaggio competitivo.
Anche altre aziende che adotteranno un modello simile potrebbero riuscire a offrire prodotti migliori a costi minori, beneficiando di algoritmi instancabili che lavorano 24/7. Si delinea un possibile scenario in cui le aziende “snelle” potenziate dall’IA diventano la norma: organici ridotti all’osso ma altamente specializzati, coadiuvati da un esercito silenzioso di agenti artificiali. Questo potrebbe mettere pressione sulle aziende più tradizionali, costrette a tenere il passo per non rimanere escluse dal mercato.
D’altro canto, le implicazioni sociali di questa trasformazione non possono essere ignorate. Se molte imprese seguissero la strada di Duolingo, interi settori potrebbero veder calare la domanda di lavoro umano.
I lavoratori dovranno puntare sempre più sulla formazione continua per acquisire competenze complementari all’IA; le aziende dovranno investire in riqualificazione del personale e gestire con responsabilità le transizioni, evitando approcci puramente estrattivi; le istituzioni potrebbero dover aggiornare le normative sul lavoro e i sistemi di welfare per far fronte a un mondo in cui la carriera di una persona potrebbe essere più volatile e interdipendente dalle disruption tecnologiche.
In conclusione, il “caso Duolingo” offre uno sguardo su ciò che sarà sul futuro prossimo. Da una parte, l’innovazione spinta dall’IA promette strumenti educativi più efficaci, servizi più accessibili e un mondo in cui le persone sono libere dai lavori più tediosi. Dall’altra, il rapporto fra lavoro e IA entra in una fase delicata, in cui sarà fondamentale trovare un nuovo equilibrio. La sfida è valorizzare l’apporto insostituibile dell’essere umano pur accogliendo i benefici dell’automazione.
L’equilibrio non è scontato e si costruirà attraverso scelte come quelle di Duolingo, che funge da laboratorio di questa convivenza tra lavoratori in carne e ossa e intelligenze artificiali.
Il modo in cui l’azienda gestirà questa transizione – e come risponderanno i suoi utenti e dipendenti – potrà fornire indicazioni preziose a tutte le realtà che si apprestano ad affrontare la medesima sfida.
L’UE introduce dal 20 giugno 2025 un’etichetta energetica per smartphone e tablet. Informazioni su efficienza, durata, riparabilità e resistenza utili per acquisti più consapevoli.
Dal prossimo 20 giugno 2025, in tutta l’Unione Europea entrerà in vigore una nuova etichetta energetica dedicata a smartphone e tablet.
Si tratta di una novità importante che avvicina i dispositivi mobili agli standard già adottati da tempo per gli elettrodomestici, introducendo criteri chiari su efficienza energetica, durata della batteria, riparabilità e resistenza.
Una misura attesa, per la verità, che punta a promuovere scelte di acquisto più consapevoli e a favorire la sostenibilità nell’uso quotidiano della tecnologia.
Vediamo insieme di cosa si tratta.
Etichetta energetica anche per i dispositivi mobili
L’adozione di una etichetta energetica nasce da una precisa esigenza, vale a dire quella rendere più trasparente per i consumatori la qualità dei dispositivi mobili dal punto di vista energetico e ambientale.
Fino ad oggi, smartphone e tablet venivano valutati principalmente in base alle loro caratteristiche prestazionali, come velocità, memoria, fotocamere, mentre elementi come la durata della batteria, la possibilità di riparazione o la resistenza fisica passavano in secondo piano.
Nuova etichetta energetica per smartphone e tablet
Etichetta energetica, quali i dispositivi mobili
Con la nuova etichetta, invece, saranno questi aspetti a essere messi in evidenza, permettendo agli utenti di compiere scelte più informate.
La nuova normativa riguarda smartphone, tablet e telefoni cordless con schermo fino a 17,4 pollici. Sono esclusi i dispositivi con schermi flessibili e i tablet basati su Windows, che saranno oggetto di regolamentazioni specifiche future.
Cosa indica la nuova etichetta energetica
Proprio come per frigoriferi o lavatrici, l’etichetta mostrerà una classe di efficienza energetica che va dalla A (massima efficienza) alla G (minima efficienza). Ma ci sarà molto di più.
Le informazioni riportate comprenderanno:
autonomia della batteria, indicata in ore e minuti per ciascun ciclo di carica completo;
durata della batteria nel tempo, ovvero quanti cicli completi il dispositivo può sostenere mantenendo almeno l’80% della capacità iniziale;
indice di riparabilità, che valuta quanto sia facile riparare il dispositivo;
resistenza a cadute, testata su urti accidentali;
protezione da polvere e acqua, specificata tramite l’indice di protezione IP;
QR code, che rimanderà a una scheda più dettagliata nel registro europeo EPREL.
Oltre all’etichetta, i produttori dovranno rispettare nuovi criteri di progettazione ecocompatibile, tra cui garantire batterie più durevoli, assicurare la disponibilità di pezzi di ricambio e rendere accessibili gli aggiornamenti software per almeno cinque anni dalla fine della vendita del modello.
Smartphone nuova etichetta energetica
Scala delle classi di efficienza energetica da A a G.
La classe di efficienza energetica di questo prodotto.
Durata della batteria per ciclo, in ore e minuti per ogni carica completa.
Classe di affidabilità in caduta libera ripetuta.
Durata della batteria in cicli.
Classe di riparabilità.
Grado di protezione dall’ingresso di acqua.
Quando entrerà in vigore
La nuova etichettatura sarà obbligatoria a partire dal 20 giugno 2025.
Da quel momento, tutti i dispositivi immessi sul mercato europeo dovranno riportare la nuova etichetta, pena l’impossibilità di essere venduti legalmente nei paesi membri.
Un cambiamento che riguarda non solo i grandi produttori, ma l’intero mercato dei dispositivi mobili.
Perché è stata introdotta
Alla base della decisione c’è un obiettivo chiaro: promuovere la sostenibilità e favorire l’economia circolare.
Ormai lo sappiamo bene, gli smartphone e i tablet sono diventati oggetti di uso quotidiano. Ma la loro produzione, il loro consumo e il loro smaltimento generano un impatto ambientale significativo.
Secondo la Commissione Europea, rendere i dispositivi più efficienti, durevoli e riparabili può ridurre sensibilmente l’impronta ecologica, oltre a contenere la produzione di rifiuti elettronici.
Fornire informazioni trasparenti significa anche ridurre l’obsolescenza programmata. E incentivare i consumatori a considerare la longevità come un fattore decisivo, non solo le caratteristiche più appariscenti.
Cosa cambia per i consumatori
Per i consumatori la nuova etichetta rappresenterà uno strumento in più per valutare meglio la qualità del prodotto, andando oltre le sole specifiche tecniche.
Scegliere uno smartphone o un tablet non sarà più solo questione di fotocamere migliori o schermi più luminosi. Dal 20 giugno in poi si potrà capire anche quanto durerà la batteria nel tempo, quanto sarà facile ripararlo in caso di guasto e quanto resisterà agli imprevisti della vita quotidiana.
Inoltre, avere informazioni più chiare potrà anche aiutare a risparmiare. Infatti, un dispositivo più efficiente e duraturo richiede meno sostituzioni e meno spese nel tempo.
L’introduzione della nuova etichetta energetica per smartphone e tablet è molto più di una questione di trasparenza commerciale. Potrebbe essere davvero una svolta culturale.
Siamo di fronte ad un cambiamento di paradigma nell’approccio alla tecnologia, orientato non solo all’innovazione ma anche alla responsabilità ambientale e sociale.
Dal 2025, ogni scelta tecnologica avrà un peso ancora più concreto sulle nostre abitudini e sull’ambiente che ci circonda.
Una trasformazione apparentemente poco incisiva, ma che promette di cambiare il modo in cui valutiamo i dispositivi che ci accompagnano ogni giorno.
[L’immagine di copertina è stata creata da Franz Russo utilizzando il modello di intelligenza artificiale generativa Chatgpt-4o]
Un pesante blackout ha colpito in modo particolare la Spagna e il Portogallo, in misura minore il sud della Francia. Pesanti disagi ai servizi digitali e alle infrastrutture. Adesso si cerca di scoprire le cause tra guasto o attacco cyber. Intanto sarebbe meglio investire su infrastrutture resilienti.
Nella giornata di oggi, 28 aprile 2025, un blackout di grandi proporzioni straordinarie a colpito la Spagna, il Portogallo e in misura minore il sud della Francia, lasciando milioni di cittadini senza elettricità e generando disservizi estesi, soprattutto nell’ambito dei servizi digitali e delle infrastrutture critiche.
Il blackout ha interessato l’intera Spagna continentale, il Portogallo e alcune regioni del sud della Francia come l’Occitania.
Il blackout ha avuto un impatto immediato sulla Rete e sulle telecomunicazioni. In molte aree spagnole e portoghesi la rete mobile è andata completamente offline, rendendo impossibili sia le chiamate vocali sia il traffico dati.
Le connessioni fisse hanno subito blackout o forti rallentamenti, con pesanti ripercussioni su attività commerciali, media, e servizi online essenziali.
Un pesante blackout ha colpito la Spagna e il Portogallo
In tilt anche i sistemi di pagamenti
Anche i sistemi di pagamento elettronico, bancomat e POS sono andati in tilt, obbligando molti esercizi commerciali ad accettare esclusivamente pagamenti in contanti.
Il blackout ha paralizzato i trasporti pubblici. Metropolitane evacuate a Madrid, Barcellona e Valencia; treni bloccati su tutta la rete ferroviaria; traffico cittadino in tilt per semafori fuori uso.
Negli aeroporti di Madrid-Barajas e Lisbona si sono registrati ritardi e cancellazioni di voli, con operazioni ridotte all’essenziale grazie ai generatori di emergenza.
Gli ospedali, sebbene equipaggiati con generatori, hanno dovuto sospendere interventi non urgenti e concentrarsi sui servizi di emergenza.
Ipotesi sulle cause: guasto o attacco informatico?
Le autorità spagnole e portoghesi stanno ancora indagando.
L’ipotesi prevalente riguarda un guasto tecnico, ma non si esclude un possibile attacco informatico.
Cosa accade ai servizi web e all’infrastruttura digitale durante un blackout
In eventi di blackout prolungato, i servizi digitali si bloccano a cascata. I data center possono resistere solo per un tempo limitato grazie ai sistemi UPS e ai generatori.
In ogni caso, le reti di telecomunicazione dipendono fortemente dalla disponibilità costante di energia. Quando la rete primaria cede, anche le torri cellulari, le centrali dati e i nodi di rete si spengono progressivamente.
A questo si aggiungono i problemi alla catena logistica del digitale: senza elettricità, è impossibile mantenere operativi servizi cloud, streaming, e-commerce e infrastrutture pubbliche digitalizzate.
Come agire per ridurre i disagi
Affrontare blackout estesi richiede una strategia articolata:
Ridondanza energetica: garantire una rete distribuita di generatori e sistemi UPS non solo nei data center, ma anche nei nodi di rete più periferici.
Piani di disaster recovery: le aziende e le istituzioni devono disporre di protocolli chiari per la gestione delle emergenze digitali.
Cybersecurity avanzata: proteggere gli impianti critici da attacchi informatici è fondamentale per ridurre i rischi di blackout indotti.
Formazione e cultura della resilienza: formare operatori e cittadini su come reagire efficacemente in caso di blackout.
Il blackout di oggi, in Spagna, Portogallo e Francia, rappresenta una drammatica conferma della fragilità delle nostre infrastrutture digitali.
Una fragilità che richiede un ripensamento serio delle strategie di resilienza energetica e digitale, in un contesto sempre più interconnesso e vulnerabile.
Musk prevede di ridurre il suo ruolo al DOGE per Tesla, e ora i profitti crollano (-71%). Con l’appoggio di Trump non molla. La realtà rischia di frenare i suoi sogni marziani.
Elon Musk ha annunciato che ridurrà il suo impegno nel Dipartimento per l’Efficienza Governativa (DOGE), l’ente voluto da Donald Trump per snellire la burocrazia statunitense.
Dietro questi numeri si nasconde anche il peso delle scelte e dell’atteggiamento di Musk, sempre più al centro di polemiche per le sue prese di posizione politiche e il suo uso, a volte spregiudicato, della sua piattaforma X.
Val la pena analizzare i fatti e capire cosa sta succedendo.
Musk, il passo indietro dal dipartimento DOGE
Durante una conference call con gli investitori di Tesla, Musk ha dichiarato che il suo lavoro al DOGE è “quasi completato” e che, a partire da maggio 2025, dedicherà solo uno o due giorni a settimana all’ente governativo, tornando a focalizzarsi su Tesla, SpaceX e X.
Secondo Reuters, Musk ha sottolineato che il suo ruolo di “dipendente governativo speciale” scadrà a fine maggio, dopo i 130 giorni previsti dal suo incarico.
La decisione non sorprende: il DOGE, guidato da Musk e dall’imprenditore Vivek Ramaswamy, ha già implementato riforme radicali, con tagli per oltre 140 miliardi di dollari, anche se alcune stime sono controverse.
Già negli ultimi giorni, Politico aveva riportato indiscrezioni secondo cui Trump era pronto a ridimensionare il ruolo di Musk, più orientato a diventare un consigliere informale.
La Casa Bianca e Musk avevano smentito un’uscita immediata, ma le pressioni degli investitori di Tesla, preoccupati per il calo delle vendite (-13% nel primo trimestre), sembrano aver spinto Musk a fare un passo indietro. “Tesla ha bisogno di me ora più che mai”, ha detto Musk, come riportato da Bloomberg.
Elon Musk riduce il suo ruolo al DOGE mentre Tesla crolla
Musk e il crollo dei profitti di Tesla, i numeri
Nel frattempo, i numeri parlano chiaro e non sono incoraggianti.
Tesla ha chiuso il primo trimestre del 2025 con un utile netto di 409 milioni di dollari, in calo del 71% rispetto agli 1,4 miliardi dello stesso periodo del 2024. I ricavi sono scesi del 9%, attestandosi a 19,3 miliardi di dollari.
Sempre secondo Reuters, il calo è dovuto a una combinazione di fattori: una domanda globale più debole per i veicoli elettrici, tagli aggressivi ai prezzi per stimolare le vendite e un aumento delle spese operative per progetti di intelligenza artificiale e robotica, come il robot Optimus e la guida autonoma.
La concorrenza, con rivali come il cinese BYD in forte ascesa, ha fatto il resto.
Musk e il suo atteggiamento sempre più polarizzante
L’immagine di Musk, sempre più polarizzante, potrebbe aver contribuito a generare questo momento difficile per Tesla.
Negli ultimi mesi, come ben sappiamo, il CEO ha fatto parlare di sé non solo per le sue imprese imprenditoriali, ma per una serie di comportamenti e dichiarazioni che hanno sollevato critiche in tutto il mondo.
Il caso più eclatante risale al 20 gennaio 2025, durante l’insediamento di Trump, quando Musk ha compiuto un gesto, braccio teso dopo essersi battuto il petto, interpretato da molti come un saluto fascista o nazista.
Media come Times of Israel hanno riportato le reazioni indignate, mentre l’Anti-Defamation League ha definito il gesto “maldestro” ma non intenzionalmente nazista. Musk, su X, ha respinto le accuse, parlando di “trucchi sporchi” e spiegando che voleva solo “dare il cuore al pubblico”. Eppure, il gesto è stato celebrato da gruppi estremisti come Blood Tribe, alimentando le polemiche.
Durante una diretta su X con la leader di AfD Alice Weidel, non ha contraddetto teorie revisioniste su Hitler, suscitando ulteriori critiche. La sua gestione di X, trasformata in un megafono per idee di destra e teorie controverse, ha alienato utenti e istituzioni.
Per citarne qualcuno, la vicepremier spagnola Yolanda Díaz, ad esempio, ha abbandonato la piattaforma in segno di protesta, mentre la Commissione Europea ha messo sotto osservazione X per possibili violazioni del Digital Services Act.
Questi episodi hanno avuto un impatto sulla percezione anche di Tesla. Come riportato da Reuters, il brand è fortemente associato alla figura di Musk, e le accuse di antisemitismo (come la condivisione di teorie cospirative su George Soros nel 2023) e il flirt con l’estrema destra hanno allontanato consumatori e investitori sensibili a questi temi.
“Il comportamento di Musk sta diventando un rischio per Tesla“, ha dichiarato un analista di Wedbush Securities a Bloomberg. La fiducia nel marchio ne ha risentito, soprattutto in mercati chiave come l’Europa, dove le polemiche politiche di Musk sono seguite con attenzione.
Cosa attendersi da Musk ora
La decisione di Musk di ridimensionare il suo ruolo al DOGE è un segnale che il tycoon è consapevole delle difficoltà di Tesla. In ogni caso, il danno reputazionale e le sfide di mercato non si risolveranno dall’oggi al domani.
La concorrenza nel settore delle auto elettriche è sempre più agguerrita, e Tesla deve ritrovare il suo slancio innovativo per recuperare terreno.
Musk, dal canto suo, dovrà dimostrare di poter bilanciare le sue ambizioni politiche con la leadership aziendale, evitando passi falsi che potrebbero ulteriormente erodere la fiducia degli stakeholder. Impresa quasi impossibile.
Intanto, il dibattito sul suo atteggiamento non accenna a placarsi. È sicuramente Musk a portare Tesla dov’è oggi, ma è anche la sua personalità controversa a metterla a rischio.
Di fronte ad una situazione del genere, c’è da star sicuri che Musk prenderà qualche provvedimento di convenienza sul momento. Ma in una prospettiva più ampia, in realtà, è pronto a non indietreggiare in alcun modo.
Orma ha assunto la consapevolezza che il suo ruolo all’interno dell’amministrazione Trump è appoggiato proprio dal presidente Usa. E fin quando questo sostegno c’è, per lui tutto va bene.
Solo che tutto questo, come abbiamo visto, deve fare i conti con la realtà. E Marte è ancora molto lontano dall’essere raggiunto.
La Commissione UE ha inflitto una multa ai due colossi Apple e Meta per aver violato il DMA. Un caso che potrebbe rendere ancora più accese le relazioni tra Usa e UE.
La Commissione Europea ha inflitto oggi una sanzione a due dei più grandi colossi tecnologici Usa.
La Commissione UE multa Apple e Meta in violazione del DMA
Perché Apple e Meta sono multate dalla UE
Nel comunicato ufficiale rilasciato dalla Commissione Europea, si legge che Apple e Meta non avrebbero rispettato l’obbligo previsto dal DMA di offrire agli utenti europei “un servizio equivalente che utilizzi meno dati personali”.
Un obbligo non accessorio, ma centrale nel nuovo impianto normativo, che mira a riequilibrare il rapporto tra i cosiddetti gatekeeper (i grandi intermediari digitali) e gli utenti finali.
Secondo l’analisi della Commissione, Apple avrebbe ostacolato gli sviluppatori nell’informare gli utenti su opzioni di pagamento alternative all’App Store. Ma soprattutto non avrebbe offerto una scelta chiara agli utenti su un sistema che tratti meno i loro dati personali.
Meta, dal canto suo, avrebbe violato lo stesso principio nella recente introduzione dell’abbonamento no ads, che non offrirebbe in modo adeguato un’alternativa che non comporti l’uso estensivo dei dati.
Cos’è il DMA e perché è importante
Il Digital Markets Act è entrato in vigore nel novembre 2022, ma ha iniziato a produrre effetti concreti solo da marzo 2024, quando è entrato in piena applicazione.
Si tratta di una normativa ambiziosa con cui l’Unione Europea mira a regolamentare l’attività dei grandi attori digitali – designati ufficialmente gatekeeper – imponendo loro obblighi chiari in materia di interoperabilità, trasparenza e protezione dei dati personali.
La logica alla base del DMA è semplice. Se pochi attori dominano il mercato digitale europeo, devono rispettare regole più severe per evitare comportamenti anticoncorrenziali e garantire agli utenti finali maggiore libertà di scelta.
In questo contesto, le sanzioni di oggi segnano una svolta. Si tratta delle prime multe effettive basate proprio sulle violazioni del DMA, e potrebbero aprire la strada a un confronto ancora più acceso tra Bruxelles e le big tech americane.
Teresa Ribera
“Le decisioni odierne inviano un messaggio forte e chiaro. Il Digital Markets Act è uno strumento cruciale per liberare potenziale, scelta e crescita, garantendo agli operatori digitali la possibilità di operare in mercati contendibili ed equi. Protegge i consumatori europei e crea condizioni di parità. Apple e Meta non hanno rispettato il DMA”. Sono le parole a commento di Teresa Ribera, Vicepresidente Esecutiva per una Transizione Pulita, Giusta e Competitiva
Le tensioni geopolitiche e l’ombra di Trump
La notizia arriva in un momento già teso nelle relazioni tra Stati Uniti e Unione Europea. I dazi introdotti recentemente dagli USA su alcune esportazioni europee – e le possibili contromisure da parte dell’UE – hanno acceso un clima di scontro commerciale che si intreccia sempre di più con la regolamentazione del digitale.
Proprio in questo clima, Meta – così come altre grandi aziende tecnologiche – avrebbe chiesto nelle ultime settimane l’intervento di Donald Trump, in vista delle elezioni presidenziali USA, affinché eserciti pressione sull’UE per ammorbidire l’applicazione del DMA.
Una mossa che, se confermata, suggerisce un’escalation non solo economica, ma anche politica, nel rapporto tra Bruxelles e Silicon Valley.
Non è un mistero che le big tech abbiano sempre mal digerito l’idea di una regolamentazione europea autonoma. Ma l’approccio dell’UE, soprattutto in ambito digitale, è oggi più determinato che mai.
Henna Virkkunen
“Consentire la libera scelta di aziende e consumatori è al centro delle norme stabilite dal Digital Markets Act. Ciò include garantire che i cittadini abbiano il pieno controllo su quando e come i loro dati vengono utilizzati online e che le aziende possano comunicare liberamente con i propri clienti. Le decisioni adottate oggi dimostrano che sia Apple che Meta hanno privato i propri utenti di questa libera scelta e sono costrette a modificarne il comportamento. Abbiamo il dovere di proteggere i diritti dei cittadini e delle imprese innovative in Europa e mi impegno pienamente per raggiungere questo obiettivo”.
Henna Virkkunen, Vicepresidente esecutivo per la sovranità tecnologica, la sicurezza e la democrazia
Cosa potrebbe succedere adesso
Le sanzioni comminate oggi rappresentano un segnale forte e inequivocabile. L’Unione Europea è disposta ad applicare il DMA fino in fondo.
Apple e Meta, con 60 giorni di tempo per adeguarsi, potrebbero fare ricorso, certo, ma difficilmente questo rallenterà la macchina regolatoria europea. Anzi, è probabile che altre indagini, tuttora in corso, possano portare presto a ulteriori sanzioni nei confronti di Alphabet (Google), Amazon e TikTok.
Dal canto loro, gli Stati Uniti potrebbero interpretare questo come un attacco diretto alle aziende americane, alimentando le frizioni commerciali in corso.
E con Trump alla Casa Bianca, la questione DMA potrebbe diventare uno dei nodi più delicati nelle relazioni transatlantiche.
Insomma, ci troviamo al primo vero banco di prova dell’efficacia del Digital Markets Act. È anche una dimostrazione che l’UE, almeno sul fronte della regolamentazione digitale, non ha intenzione di restare a guardare.
Vedremo come si svilupperà questa vicenda nei prossimi giorni.
Addio a Papa Francesco, primo Papa dell’era digitale, ha saputo usare il web e i social per comunicare con semplicità, autenticità e visione fino all’ultimo.
Nel giorno di Pasquetta, il 21 aprile 2025, muore Papa Francesco. Quello che possiamo definire, senza esagerare, il primo Papa dell’era dei social media.
Nonostante il primo account social — @Pontifex su Twitter — fosse stato inaugurato da Benedetto XVI nel dicembre 2012, è stato poi lui, Papa Francesco, a dare voce e corpo alla comunicazione digitale. A usare davvero le piattaforme per parlare al mondo.
Si è affacciato sul mondo social con naturalezza, semplicità, coerenza. Ha compreso, forse prima di molti altri, che per parlare davvero al mondo — soprattutto ai più giovani — bisognava saper ascoltare, dialogare, comunicare. Anche online.
Durante tutto il pontificato, non ha mai avuto paura degli strumenti digitali. Non li ha mai demonizzati. Anzi, li ha accolti e benedetti. Letteralmente.
“Internet può offrire maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti”, aveva detto nel 2014. E non a caso definì il web “un dono di Dio”.
Un dono, certo, se usato responsabilmente. Un mezzo potente per costruire ponti, non per erigere muri.
“L’uso dei media digitali, in particolare dei social media, ha sollevato una serie di gravi questioni etiche che richiedono un giudizio saggio e attento da parte dei comunicatori e di tutti coloro che hanno a cuore l’autenticità e la qualità delle relazioni umane. L’educazione ai media, la creazione di una rete tra i media cattolici e il contrasto alle menzogne e alla disinformazione”.
Parole che dimostrano quanto fosse profondamente sensibile ai temi etici legati alla comunicazione digitale.
E quanto credesse in un uso consapevole degli strumenti, per contrastare le derive della disinformazione.
Addio Papa Francesco, primo vero papa dell’era dei social media
Il primo Angelus “social” e il primo tweet
Lo aveva capito fin da subito, Papa Francesco.
Nel marzo 2013, a pochi giorni dalla sua elezione, il primo Angelus fu anche il primo Angelus davvero “social”. Le sue parole, pronunciate in Piazza San Pietro con quella forza gentile che lo ha sempre contraddistinto, furono condivise, commentate, rilanciate. In rete. In tempo reale.
E pochi giorni dopo arrivò anche il suo primo tweet ufficiale: semplice, diretto, umano. Segnava l’inizio di un nuovo modo di comunicare il messaggio della Chiesa. Nessuna distanza. Nessun filtro. Solo parole che parlavano al cuore.
L’hashtag #GiubileodellaMisericordia fu tra i più usati in Italia nei giorni dell’apertura della Porta Santa: oltre 17.500 conversazioni in poche ore.
Era la prova concreta di quanto il messaggio di Papa Francesco trovasse eco nel linguaggio dei nostri tempi.
Un Papa amato sul web
Come raccontato proprio qui su questo blog, nel 2014 Papa Francesco era stato il personaggio più amato del web.
Con oltre 49 milioni di citazioni online tra marzo e novembre 2013, e una media di 1,7 milioni di ricerche mensili su Google.
Non era solo popolarità. Era una sintonia nuova con chi cercava un messaggio di speranza, di misericordia, di pace. Anche online.
Un messaggio fino all’ultimo
Papa Francesco ha continuato a comunicare fino all’ultimo. Con lo stesso stile. Con la stessa voce: chiara, gentile, accogliente. Ha parlato ai giovani. Ha parlato agli esclusi. Ha parlato a chi è lontano dalla Chiesa, ma non dalla vita.
E ha usato anche il web e i social media per farlo.
Con umiltà, senza retorica, senza paura. Con autenticità.
La sua eredità digitale e umana
Il ricordo di Papa Francesco, oggi che ci lascia, è anche il ricordo di un modo nuovo di essere presenti nel mondo. Di una comunicazione che ha saputo incontrare l’altro anche attraverso uno schermo.
Non è stato solo il primo Papa dell’era dei social. È stato il primo a viverla davvero, con coerenza e visione.
TikTok lancia Footnotes, un sistema di verifica collaborativa simile a Community Notes. Un modello ibrido che combina il fact-checking professionale con il contributo degli utenti. Per ora negli Usa, ecco come funziona.
E così, dopo Meta, anche TikTok decide di abbracciare un sistema di verifica collaborativa molto simile a quello di Community Notes di X. Su TikTok si chiamerà Footnotes, proprio per richiamare l’idea di note a piè di pagina, cioè brevi annotazioni che aggiungono contesto ai contenuti condivisi sulla piattaforma.
L’obiettivo è chiarire meglio alcune informazioni, soprattutto in situazioni che rischiano di essere fraintese o decontestualizzate.
E tutto questo, ovviamente, per contrastare in modo più efficace il fenomeno della disinformazione.
Quindi, TikTok alla fine si muove nella stessa direzione. Una mossa prevedibile, se guardiamo a ciò che sta accadendo anche sulle altre piattaforme, dove cresce l’adozione di sistemi di verifica gestiti — almeno in parte — direttamente dagli utenti.
Ma con qualche differenza.
Rispetto a Community Notes su X, e rispetto anche al sistema di Meta (che, ricordiamolo, è attivo solo negli Stati Uniti e non ancora in Europa), TikTok adotta un approccio diverso.
Su Meta, ad esempio, il nuovo sistema comunitario è ancora affiancato, soprattutto in Europa, dal lavoro delle organizzazioni di fact-checking.
TikTok invece non abbandona il fact-checking professionale, anzi. La società di ByteDance continua a collaborare con oltre 20 organizzazioni accreditate, ma apre anche agli utenti. E qui sta la novità.
Come apparirà Footnotes su TikTok
Chi può contribuire?
Non tutti. Per diventare contributori su Footnotes bisogna:
avere almeno 18 anni,
avere un account TikTok attivo da almeno 6 mesi,
non aver violato le regole della piattaforma.
Sono requisiti simili a quelli richiesti su X. Ma qui TikTok costruisce un sistemaibrido.
Come funziona Footnotes di TikTok
Quando un contenuto viene segnalato per potenziale disinformazione, gli utenti approvati possono proporre una nota informativa.
Questa nota non viene pubblicata subito. Prima deve essere valutata da altri utenti, anche con opinioni divergenti, attraverso un meccanismo che TikTok chiama Bridge-Based Ranking.
Un sistema che favorisce le note considerate utili da utenti con prospettive diverse, per evitare distorsioni di parte.
In parallelo, il contenuto della nota può essere anche sottoposto alla valutazione delle organizzazioni di fact-checking. Solo quando questi criteri sono soddisfatti, la nota viene approvata e pubblicata in fondo al contenuto, come una vera nota a piè di pagina.
Le piattaforme rendono più chiari i contesti
Questa scelta conferma una tendenza ormai evidente: le piattaforme non possono più ignorare il contesto dei contenuti. Devono spiegarlo, renderlo trasparente, soprattutto quando diventano — come nel caso di TikTok — spazi non solo di intrattenimento, ma anche di informazione, soprattutto per i più giovani.
Footnotes si inserisce quindi in un panorama dove la disinformazione è diffusa, e dove la capacità di spiegare — e non solo limitare — diventa centrale.
TikTok lancia Footnotes, la versione ibrida di Community Notes
Footnotes arriverà in Europa?
Per ora, Footnotes è attivo solo negli Stati Uniti, in fase di test.
TikTok non ha ancora annunciato una data di lancio per l’Unione Europea, anche perché qui vigono regole precise, come il Digital Services Act, che impone standard stringenti per la trasparenza e la gestione dei contenuti.
È plausibile che TikTok voglia prima verificare l’efficacia del sistema negli USA, e solo dopo valutare un’estensione al mercato europeo. Ma se i risultati saranno positivi, è lecito aspettarsi che Footnotes arrivi anche qui — anche se con i necessari adattamenti alle normative europee.
Footnotes, un modello intermedio
Rispetto alla totale apertura di X e alla svolta comunitaria (ma ancora incerta) di Meta, TikTok sembra scegliere una strada intermedia. Non rinuncia alla verifica professionale, ma coinvolge gli utenti in un processo strutturato, trasparente e, almeno nelle intenzioni, controllato.
Potrebbe essere una soluzione più sostenibile nel lungo periodo, soprattutto dal punto di vista della gestione e della credibilità.
Resta da vedere come evolverà. Di certo, continueremo a monitorare il funzionamento di Footnotes, soprattutto se, come probabile, dovesse arrivare anche in UE.
Ecco perché OpenAI starebbe pensando ad un proprio social media
OpenAI sta pensando ad un proprio social media. Tra rivalità con Elon Musk e bisogno di dati, ecco perché potrebbe cambiare il panorama delle piattaforme digitali.
Se davvero OpenAI realizzasse la sua piattaforma digitale, come si racconta in queste ore, allora sì che sarebbe uno stravolgimento delle piattaforme digitali, in particolare del panorama dei social media per come lo conosciamo oggi.
L’dea di OpenAI di un suo social media
Il primo a darne notizia è stato The Verge che ha lanciato un suo articolo con una notizia importante: OpenAI, la società guidata da Sam Altman che ha creato ChatGPT, starebbe pensando a una piattaforma digitale in stile X.
La piattaforma – guarda caso – è proprio quella di Elon Musk. E fra poco spiego cosa intendo per “guarda caso”.
Perché un social media proprio adesso?
Perché OpenAI starebbe pensando a una mossa del genere? E soprattutto: quale sarebbe la finalità per un’azienda di intelligenza artificiale?
Prima di rispondere a queste domande, riavvolgiamo un attimo il nastro e torniamo indietro di qualche anno.
Ecco perché OpenAI starebbe pensando ad un proprio social media
Un po’ di storia: dal 2015 a oggi
Siamo nel 2015, anno in cui nasce OpenAI come associazione senza scopo di lucro, con l’obiettivo di rendere l’intelligenza artificiale accessibile e utile a beneficio dell’umanità.
Tra i fondatori, c’era anche Elon Musk. Le cose vanno bene fino al 2018, quando Musk, stanco della leadership di Altman – secondo le informazioni che abbiamo – decide di uscire dal progetto. Se ne va, sbattendo la porta.
Poi conosciamo tutti l’evoluzione: Musk acquista Twitter nell’ottobre 2022, e nel frattempo i rapporti con OpenAI si fanno sempre più tesi.
Le tensioni con Musk e la nascita di Grok
Gli screzi tra i due non si sono mai sopiti. Anzi, si sono accentuati con la crescita di ChatGPT e con la trasformazione di OpenAI in azienda a scopo di lucro, una svolta non da poco. In parallelo, Elon Musk sviluppa xAI e poi Grok, il chatbot integrato su X.
Le tensioni si aggravano fino ad arrivare a cause legali. Proprio recentemente, OpenAI ha denunciato Musk, e la battaglia giudiziaria è in corso.
L’offerta di Musk e la risposta di Altman
A febbraio di quest’anno, Elon Musk ha provato a rilanciare. Ha offerto 97 miliardi di dollari per acquisire OpenAI. Una mossa per riportarla alle origini, secondo lui.
Altman ha risposto via X: “No, grazie. Semmai compreremo noi X per 9,7 miliardi”. Una battuta, forse, ma alla luce di ciò che sappiamo oggi, potrebbe nascondere molto di più.
Anche Meta spinge sull’AI, e OpenAI risponde
Quando Meta ha lanciato il suo Meta AI, Altman ha commentato: forse è arrivato il momento che anche OpenAI abbracci i social media. Tutti segnali che portano nella stessa direzione.
OpenAI contro X?
E adesso arriva questa notizia. Appunto, OpenAI potrebbe entrare direttamente nel mercato delle piattaforme digitali, in concorrenza diretta con X.
Perché proprio ora?
Primo: per la rivalità ormai conclamata con Elon Musk. Secondo: perché X sta consolidando la sua posizione e OpenAI potrebbe inserirsi proprio in questo contesto.
I dati, il vero obiettivo di OpenAI
Ma la motivazione più importante è un’altra. ChatGPT ha bisogno di dati. Ha bisogno di dataset sempre più grandi per migliorare. E qual è il modo più diretto per reperire dati, anche in tempo reale? Una piattaforma sociale, come appunto X.
Come fa Meta AI, che si nutre di dati pubblici degli utenti, nonostante l’opposizione. Come fa Grok, che accede a dati condivisi su X. OpenAI potrebbe fare lo stesso, se avesse una propria piattaforma.
Un esempio concreto: Studio Ghibli e action figures
Basti pensare al recente trend delle immagini generate in stile Studio Ghibli o alle action figures AI: se questi contenuti venissero condivisi su una piattaforma OpenAI, che tipo di dati ne emergerebbero?
Dati preziosi per addestrare i modelli, che diventerebbero sempre più efficaci, più evoluti. L’intelligenza artificiale si nutrirebbe di questi contenuti.
Pe un social media servono infrastrutture
Chiaramente, entrare nel mercato delle piattaforme digitali non è un gioco. Servono server, infrastrutture, investimenti. OpenAI è già attrezzata, ma dovrà fare di più.
E soprattutto dovrà progettare una piattaforma con un livello di engagement molto elevato, se vuole distinguersi in un mercato ormai segnato dall’“algoritmo del proprietario”.
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E se OpenAI ci riuscisse?
Non mi sorprenderebbe se OpenAI riuscisse davvero nel suo intento: realizzare una piattaforma digitale che alimenti il suo modello ChatGPT, che attiri utenti, ma che allo stesso tempo sia guidata da logiche di controllo algoritmico.
Non sarebbe nulla di nuovo, anzi: sarebbe perfettamente in linea con quello che stiamo già osservando in molte piattaforme.
Altman ci sta pensando, ma non c’è nulla di ufficiale
L’idea c’è, l’intento pure. Ma non ci sono ancora notizie ufficiali. Sam Altman sta raccogliendo feedback all’interno dell’azienda per capire se il progetto è davvero fattibile.
Non è solo una questione finanziaria: si tratta di comprendere come posizionarsi in un contesto dove X, Meta e altre stanno già giocando le loro carte.
Una sfida che cambierebbe tutto
Una mossa del genere farebbe saltare i nervi a Elon Musk, e sarebbe uno scenario che varrebbe la pena osservare da vicino. Perché cambierebbe davvero tutto.
Continuerò a raccontarvi ciò che succede. Se volete condividere pensieri e opinioni, lo spazio per farlo è aperto. E ci aggiorniamo alla prossima.
Il processo antitrust che vede FTC contro Meta è senza dubbio storico. Al centro le acquisizioni di Instagram e WhatsApp, con l’obiettivo di separarle dall’azienda. Un caso che potrebbe cambiare il futuro dei social media.
È iniziato in questi giorni, a Washington, uno dei più importanti, proprio per la sua natura, processi antitrust della storia recente.
Infatti, si è di fronte ad un processo il cui risultato potrebbe cambiare radicalmente lo scenario dei social media. Quelle piattaforme digitali che ormai stanno plasmando le nostre esistenze.
Il caso investe direttamente Meta Platforms, l’azienda guidata – e co-fondata – da Mark Zuckerberg, chiamata a rispondere in tribunale alle accuse mosse dalla Federal Trade Commission (FTC).
L’obiettivo dichiarato dell’agenzia governativa per il commercio è quello di spezzare il colosso dei social media, forzando la separazione delle sue due più celebri acquisizioni, Instagram e WhatsApp.
Una vicenda che rimette al centro del dibattito il tema della concentrazione di potere tecnologico e che potrebbe ridefinire, come dicevamo prima, il nostro rapporto con le piattaforme digitali.
Meta rischia di perdere Instagram e WhatsApp, ecco perché
Una lunga battaglia che arriva in aula
Le acquisizioni di Instagram nel 2012 e di WhatsApp nel 2014 sono state approvate all’epoca senza opposizioni rilevanti. Ma nel corso dell’ultimo decennio, la crescente preoccupazione per il potere esercitato dalle big tech ha spinto le autorità a rivedere il passato con occhi diversi.
La vicenda ha origine nel dicembre 2020, quando la Federal Trade Commission avvia la sua prima azione legale contro Meta (allora ancora Facebook), accusandola di pratiche anticoncorrenziali legate alle acquisizioni di Instagram e WhatsApp.
Dopo un primo rigetto nel 2021, la FTC presenta una versione aggiornata della denuncia che viene accolta, aprendo così la strada al processo odierno.
Ricorderete anche che nel 2020 c’era Donald Trump alla Casa Bianca. I rapporti all’epoca tra il presidente Usa e il fondatore di Facebook non erano idilliaci.
La FTC accusa Meta di aver agito in modo deliberato per soffocare la concorrenza, acquisendo quelle che già allora erano considerate minacce emergenti.
A sostegno di questa tesi, l’agenzia ha portato in aula messaggi interni in cui Zuckerberg scriveva: “Meglio comprarli che competere”- Buy or bury.
Un passaggio che potrebbe diventare il simbolo stesso del caso.
Secondo la FTC, quelle acquisizioni non hanno avuto lo scopo di innovare, ma di impedire che altri potessero farlo. Una visione che, se accolta dal tribunale, potrebbe portare a una sentenza storica: la separazione forzata di Instagram e WhatsApp da Meta.
In buona sostanza, FTC contesta a Meta il fatto che questa espansione dell’azienda e delle piattaforme è andata oltre
La difesa: “Non siamo un monopolio”
Dal canto suo, Meta respinge ogni accusa. La linea difensiva è chiara: il mercato dei social media è oggi più competitivo che mai. TikTok, YouTube, X (l’ex Twitter), iMessage e nuove piattaforme emergenti rendono lo scenario attuale molto diverso da quello del 2012.
Meta insiste anche sul fatto che le acquisizioni abbiano prodotto valore per i consumatori. Instagram, ad esempio, ha evoluto le proprie funzionalità, introducendo Stories, Reels, funzioni di e-commerce e strumenti per creator che difficilmente avrebbe potuto sviluppare in autonomia. WhatsApp è diventata una piattaforma globale, sicura e affidabile anche grazie agli investimenti di Meta.
La difesa punta inoltre il dito contro la revisione postuma delle acquisizioni: “All’epoca furono approvate, ora vengono messe in discussione. Come possono le aziende operare in un clima simile di incertezza normativa?”, è l’obiezione di fondo.
Una partita anche politica
Non è un caso che il processo arrivi in un momento delicato anche dal punto di vista politico. L’amministrazione Trump ha rimosso recentemente due commissari democratici dalla FTC, alterandone l’equilibrio interno. Contestualmente, Meta ha intensificato le attività di lobbying, cercando un’intesa che potesse evitare il processo.
Ma l’attuale presidente della FTC, Andrew Ferguson, ha deciso di andare avanti, dichiarando l’intenzione di portare fino in fondo la battaglia legale. A presiedere il caso è il giudice James Boasberg, che in passato si era mostrato scettico verso alcune argomentazioni della FTC, ma ha deciso di non bloccare il procedimento, ritenendo le accuse meritevoli di un processo completo.
Guarda il video
Le parole di Sheryl Sandberg
Il dibattimento si annuncia lungo e articolato. Era attesa la testimonianza di Mark Zuckerberg, ma anche quella di Sheryl Sandberg (ex COO di Meta) e di altri alti dirigenti dell’azienda.
Alla Sandberg, nella sua prima comparsa davanti alla commissione, è stato chiedo conto delle email in cui si parlava di Google+, oggi non più attivo. Nel 2011 Google voleva fare pubblicità su Facebook del suo social network, ma dalle email risulta che la Sandberg abbia scritto: “Bloccherei Google”.
Tutte frasi ed espressioni che in questi contesti vengono usate contro dalla controparte e che possono delineare scenari evocati proprio dalla controparte. La Sandberg è attesa di nuovo davanti al giudice.
Verranno poi ascoltate anche aziende concorrenti come Snap, Pinterest e TikTok, chiamate a spiegare come l’influenza di Meta abbia modellato — o limitato — l’ecosistema dei social media.
Il processo proseguirà nei prossimi mesi e si prevede che durerà fino a luglio 2025. Una sentenza che imponga lo spacchettamento di Meta rappresenterebbe un evento senza precedenti dai tempi delle storiche battaglie antitrust contro AT&T e Microsoft.
Una questione che va oltre Meta
Ma al di là del destino di Instagram e WhatsApp, questo processo è anche un banco di prova per la regolamentazione delle grandi piattaforme tecnologiche. Quali limiti deve avere il potere di aziende private nel plasmare le nostre interazioni digitali? Quando un’acquisizione diventa un abuso? E quanto possiamo contare sulle istituzioni per vigilare su un settore che si evolve più rapidamente delle leggi?
Il processo FTC contro Meta non è solo una questione giuridica.
Rappresenta un serio momento di riflessione sul futuro dell’equilibrio tra innovazione, concorrenza e libertà digitale. Una riflessione che ci riguarda tutti.
ChatGPT 4o ora consente di generare immagini di personaggi famosi in contesti realistici, ma mai avvenuti. Un passo avanti che solleva rischi concreti di disinformazione visiva. Ecco cosa sta cambiando, come riconoscerlo e perché serve essere responsabili.
Restando sul tema di intelligenza artificiale, vi sarete accorti anche voi che ultimamente si è potenziata la possibilità di generare immagini. E di generare queste immagini anche con personaggi noti, personaggi pubblici, personaggi famosi, politici… e addirittura ritrarli in situazioni che prima non era possibile fare.
Mi riferisco in particolare all’aggiornamento di ChatGPT, che ha potenziato il modello 4o al punto da far generare, da riuscire, da permettere agli utenti di generare immagini che prima non era possibile fare.
Ci concentriamo sempre sulle capacità dell’intelligenza artificiale, di questi modelli che sono sempre più aggiornati, sempre più potenti, ma non ci soffermiamo mai sul fatto che prima non era possibile fare una cosa, e invece oggi è possibile farlo.
Immagini IA, ChatGPT 4o e rischio disinformazione
Quali immagini può generare oggi ChatGPT 4o
Come appunto questa, che in realtà definisce ancora di più la vicinanza tra ciò che era lecito fare e ciò che in realtà è un rischio, un potenziale rischio di disinformazione che è alla portata di tutti.
Perché questo?
Perché in realtà le immagini sono, l’abbiamo visto anche in questi giorni, il contenuto più facilmente condivisibile, più facilmente condiviso sulle piattaforme, e che facilmente può diventare anche virale.
Lo diventa nel momento in cui noi abbiamo la possibilità di ritrarre personaggi noti, famosi. Faccio l’esempio di Trump che è sulla spiaggia di Copacabana con Elon Musk a bere un drink. Una situazione che prima su ChatGPT non era possibile fare e che adesso invece è alla portata di tutti.
Trump Musk spiaggia copacabana ChatGPT 4o realizzata da Franz Russo
Sono quelle situazioni in cui abbiamo questa sorta di voglia di vedere personaggi famosi in situazioni che molto probabilmente non vivrebbero mai, e che difficilmente sarebbero ritratte in quella situazione.
Questo significa che, in realtà, anche noi potremmo essere al centro di quel contenuto. E quindi, avendo la possibilità di poter ritrarre e permettendo anche agli utenti la possibilità di generare immagini come queste, nulla vieta che un giorno ci possa essere un Franz Russo, tanto per fare un esempio, che si trova in un determinato luogo, con una determinata situazione, ma in realtà tutta quell’immagine non esiste.
Il confine tra immagini reali e false è sempre più sottile
Quindi il confine tra ciò che è possibile, che è realistico, e ciò che è in realtà una potenziale disinformazione, si sta avvicinando sempre di più.
Ma perché ChatGPT arriva a trasferire questo senso di responsabilità un po’ più verso gli utenti?
La questione è molto semplice, ed è di natura commerciale.
Il caso Grok 3 di xAI
Sul mercato dell’intelligenza artificiale esiste già Grok 3, la terza versione di questa intelligenza artificiale realizzata da xAI, che è una delle società di Elon Musk.
Grok si trova all’interno della piattaforma X, e permette fin dall’inizio, da quando è stata generata la prima versione, di generare immagini che ritraggono personaggi famosi anche con un limite sempre più alto, con un’asticella sempre più alta, con possibilità di ritrarre personaggi famosi sempre più alla portata di chiunque.
L’immagine di Papa Francesco col piumino bianco
Ricordate quando nel 2023 si realizzarono quelle immagini con Papa Francesco, il famoso piumino? Ebbene, quell’immagine lì oggi ChatGPT la fa tranquillamente.
Papa Francesco piumino generata con la ChatGPT 4o da Franz Russo
L’immagine del falso arresto di Trump
Oppure un’altra famosa immagine di Donald Trump circondato da poliziotti che cerca di fuggire a un possibile arresto: ebbene, quell’immagine ChatGPT oggi la realizza tranquillamente, senza nessun problema.
Donald Trump falso arresto generato con ChatGPT 4o da Franz Russo
Questo significa che il confine, ripeto, di quello che noi possiamo generare rispetto a una potenziale disinformazione, si sta sempre di più assottigliando, sempre di più avvicinando. Non si riconosce più il rischio di quello che riusciamo a generare.
Ci sono addirittura delle immagini, tipo Bill Gates con una birra in mano, realizzata da me su ChatGPT, che alcuni strumenti di verifica, come Illuminarty, addirittura fanno fatica a definire se sia un’immagine realistica, umana, oppure se sia generata da intelligenza artificiale.
Bill Gates con birra in mano realizzata con Chatgpt-4o da Franz Russo
Questo già ci dice molto di come effettivamente anche questi strumenti di verifica possono essere utili o addirittura affidabili.
Piccoli suggerimenti per riconoscere immagini IA
Per cercare poi di offrire qualche suggerimento su come accorgerci del fatto che queste situazioni, alcune immagini, possono sembrare artefatte, ecco alcuni dettagli:
lo sfondo, magari un po’ confuso;
scritte non precise;
mani, che erano un grande problema per DALL·E 3;
oppure la pelle, che è sempre perfetta, molto liscia, e quindi già di per sé ti porta a pensare che sia un’immagine artefatta, anche se in alcuni casi anche questo dettaglio è in netto miglioramento,
o addirittura l’esposizione della luce, che in alcuni contesti è quasi irrealistica: quel tipo di luce difficilmente può essere naturale.
Oppure ancora, cercare di avvalersi sempre della ricerca inversa, quindi utilizzare motori di ricerca – ad esempio Google Immagini – sottoponendo i contenuti per avere una risposta dal motore di ricerca sul fatto che quell’immagine sia stata già utilizzata in altri contesti o meno.
Anche perché è capitato, anche di recente, che alcune immagini realizzate con intelligenza artificiale—quindi neanche con modelli di ricerca tanto evoluti, perché l’evoluzione l’abbiamo avuta molto molto di recente—siano stati confusi come contenuti realistici.
Quindi il senso di responsabilità, da parte nostra, ormai è imprescindibile. Non possiamo che fare affidamento a quel senso di responsabilità, alla consapevolezza del fatto che stiamo utilizzando strumenti che in alcuni contesti possono generare contenuti potenzialmente di disinformazione.
Guarda il video
Anche la ghilbizzazione aiutare a confondere
Anche lo stesso fenomeno della ghiblizzazione, di cui abbiamo parlato anche in un altro video, è uno di quegli elementi che ci porta a trasformare quella che è la realtà in un contesto diverso: più armonioso, più pastellato, più colorato, più dolce.
Ma anche quello diventa una situazione per mascherare altre situazioni irrealistiche. Condividerle in un contesto completamente diverso, anche quello è un potenziale rischio di disinformazione.
Celebre meme con ghiblizzazione
Quindi, rispetto anche alla potenzialità, al modo in cui noi possiamo effettivamente affrontare questo, è sicuramente importante conoscere meglio i modelli. E quindi avvalerci di quella competenza, AI Literacy, conoscenza approfondita dei modelli. Dobbiamo prestare attenzione su come utilizziamo questi modelli e per cosa li vogliamo usare.
Che sia per uso personale, per lavoro, per tutte le attività che facciamo, dobbiamo prestare sempre molta attenzione e affidarci a un senso di responsabilità. Chiederci sempre: qual è la motivazione che mi porta a usare questo modello? Cosa voglio davvero fare?
E imparare, anche noi utenti, a riconoscere sempre meglio queste immagini, a sapere che tipo di immagine abbiamo davanti, a saperle riconoscere ed evitare che diventiamo anche noi potenziali diffusori di disinformazione.
Meta AI è arrivata da poco in Italia. Ma ci sono due aspetti che vanno approfonditi: l’uso dei dati pubblici degli utenti e l’impossibilità di disattivare l’IA. In questo articolo provo a verificare le implicazioni, tra privacy, consenso. E anche un confronto con Grok di X.
Come sapete, Meta AI è attivo anche in Italia da qualche giorno. È arrivato anche su WhatsApp, dove praticamente tutti gli utenti hanno visto questa iconcina circolare che, una volta attivata, risponde a delle domande e a dei problemi.
Per cercare di chiarire il motivo di questa considerazione, che si basa essenzialmente su due elementi, provo ad essere un po’ più chiaro, per farvi entrare nella logica di ciò che dirò più tardi, soprattutto su questi due punti.
Un assistente a tratti invadente
Immaginiamo di essere in una grande stanza e di osservare ciò che accade, accompagnati da una persona che chiameremo il nostro assistente particolare.
Quando abbiamo qualcosa da chiedere, ci rivolgiamo a questo assistente che risponde alle nostre domande in maniera molto precisa e dettagliata, offrendo anche la possibilità di approfondire successivamente.
Intanto, continuiamo il nostro giro in questo palazzo osservando tutte le stanze: in ogni stanza c’è qualcosa che ci incuriosisce, e chiediamo al nostro assistente.
Il problema è che questo assistente ci segue in continuazione, anche quando non lo interpelliamo: ci osserva, ascolta le nostre azioni, guarda con chi parliamo e ascolta cosa diciamo con le altre persone che incontriamo.
Il problema sorge quando ci accorgiamo che questa presenza diventa, ad un certo punto, pesante e vorremmo mandarla via, ma non riusciamo a trovare un modo per farlo. Non c’è la possibilità, per così dire, di disattivarla.
MetaAI usa i nostri dati e non si può disattivare, alcune considerazioni
Il primo problema di Meta AI: l’uso dei dati pubblici
Ed è qui che entro sul tema, cercando di spiegare i due elementi cardine che riguardano Meta AI (e non solo).
Intanto, MetaAI è presente in Unione Europea dal 20 marzo, dopo aver – per così dire – migliorato la sua aderenza, la sua compliance, al GDPR.
Il GDPR, questo regolamento sulla protezione dei dati entrato in vigore in Unione Europea nel 2018, ha rivoluzionato il modo in cui vengono gestiti i dati.
Ebbene, ci sono due aspetti che meritano attenzione.
Il primo è che, inizialmente, avevo creduto che Meta AI non usasse i nostri dati per allenare la sua intelligenza. In realtà, le cose sono diverse. Se provate a chiedere a MetaAI, su Facebook, Instagram o WhatsApp, se utilizza i vostri dati, la risposta standard è: “No, non utilizzo i dati“. Tuttavia, la realtà è più complessa.
Questo approccio non va proprio nella direzione del GDPR, il cui fondamento è il consenso informato e la capacità di controllo da parte dell’utente all’interno delle piattaforme digitali.
Cosa c’è all’interno del Privacy Center
All’interno del Privacy Center non è ben spiegato se e come si debbano pubblicare i nostri contenuti. Meta non dà spazio a questo aspetto; il link di riferimento, che fornirò in calce al video, spiega che se non volete che MetaAI utilizzi i vostri dati, dovete passare in modalità privata. Questa soluzione, però, può essere valida per alcuni e meno per altri.
Parliamo di consapevolezza: è importante che, da un lato, la piattaforma fornisca l’informazione corretta e, dall’altro, che ciascuno adotti l’atteggiamento giusto nella condivisione dei contenuti. Solo in questo modo possiamo essere consapevoli e responsabili dell’uso dei nostri dati.
Secondo problema di Meta AI: non può essere disattivata
Il secondo elemento, che cozza maggiormente con il GDPR, è il fatto che l’intelligenza artificiale non può essere disattivata. Non esiste un tasto o un’opzione che permetta all’utente di scegliere se utilizzare o meno l’IA.
L’unica cosa possibile, in assenza di una modalità di disattivazione, è di non utilizzarla: di non interpellarla, di non fare in modo che possa entrare nelle vostre conversazioni. Ma l’IA si alimenta delle richieste (i cosiddetti prompt), dei risultati e delle risposte, continuando a prelevare dati.
Da tutte le piattaforme – Instagram, Messenger, WhatsApp e Facebook – le risposte pubbliche attingono anche ai risultati pubblici, senza possibilità di disattivare l’IA. Questo ulteriore elemento non collima con il GDPR, perché non offre la possibilità di scegliere.
Il confronto con Grok di X
Se volessimo fare un paragone, ci riferiremmo a Grok di X (la piattaforma che prima era Twitter, di proprietà di Elon Musk). Grok, che è l’IA di X, funziona in maniera simile: è integrato nella piattaforma, usabile anche senza abbonamento (con alcune limitazioni) fino alla versione Premium+. Anche Grok, comunque, utilizza di default i dati pubblici degli utenti, non appena si attiva un account.
L’unica azione possibile è quella di andare nelle impostazioni della privacy, nella sezione dedicata a Grok, e disattivare l’opzione di raccolta dati pubblici. Attenzione: se si effettua questa operazione, Grok continuerà a utilizzare i dati già condivisi, mentre solo i dati futuri non verranno più prelevati.
Un ulteriore elemento è la possibilità di eliminare la cronologia delle conversazioni con l’IA. Pur essendo un aspetto leggermente più in linea con il GDPR, sul consenso informato rimane comparabile a MetaAI.
In sintesi, stiamo parlando di due esperienze molto simili che, da un lato, permettono un minimo di controllo. Anche Grok suggerisce, come ultima ipotesi, di passare in modalità privata per evitare che i propri dati vengano prelevati. Tuttavia, questo comporta una significativa riduzione nella visibilità e nelle condivisioni dei propri contenuti.
Grok (X)
Meta AI
Opt-out disponibile
✅ Sì
⚠️ Sì, ma difficile da trovare
Disattivazione IA
✅ Parziale (nessuna interazione)
❌ No
Consenso esplicito
❌ No
❌ No
Trasparenza IA
⚠️ Media
❌ Bassa
GDPR compliance
🟡 In dubbio, ma più avanzato
🔴 Più problematico
La IA entra nelle piattaforme digitali per cambiarle
Quindi, si tratta di un passaggio inevitabile: l’intelligenza artificiale sta entrando nelle piattaforme digitali e, come già anticipato in un mio video precedente, questo cambierà radicalmente il nostro modo di interagire non solo con le piattaforme ma anche tra di noi.
Le relazioni e le conversazioni tra utenti saranno inevitabilmente influenzate dall’uso dell’IA. Dobbiamo farlo in maniera informata e consapevole, sapendo se i nostri dati saranno dati in pasto all’intelligenza artificiale e avendo la possibilità di scegliere, in linea con il consenso informato richiesto dal GDPR.
Il GDPR poggia la sua intera esistenza su questo principio: anche se non c’è un obbligo esplicito, la dichiarazione di consenso dovrebbe far parte dell’esperienza dell’utente, permettendogli di scegliere se concedere i propri dati.
Questi sono, in sostanza, i due elementi che rendono Meta AI un caso particolare.
Adesso bisognerà osservare se Meta intende, in questo scenario globale – complicato da aspetti geopolitici, finanziari e normativi – adeguarsi pienamente al regolamento europeo. Vedremo anche come reagirà l’Unione Europea a questi due punti critici, soprattutto considerando le tensioni nei rapporti con gli Stati Uniti e l’eventuale questione dei dazi e della web tax che colpiranno le big tech.
Non è uno scenario facile, e vedremo come evolveranno le cose. Ci interrogheremo se Meta AI diventerà più conforme al GDPR.
Condividete le vostre esperienze e i vostri pensieri: se Meta AI è stata utilizzata, se eravate informati sull’uso dei vostri dati. Fatemelo sapere nei commenti.
Secondo il NYT, la UE sarebbe pronta a sanzionare X per violazione del Digital Services Act. Il caso potrebbe trasformarsi in un nuovo conflitto tra UE e USA, e accentuare le tensioni già alle stelle per via dei dazi.
Secondo il New York Times ci si avvicina ad un possibile scontro tra l’Unione Europea e X, la piattaforma social di Elon Musk. Scontro da molti già prospettato in precedenza.
Secondo quanto riportato, le autorità UE starebbero preparando una sanzione che potrebbe superare il miliardo di dollari. L’accusa rivolta a X è di aver violato il Digital Services Act (DSA), la normativa comunitaria che regola i servizi digitali e impone alle grandi piattaforme di contrastare contenuti illeciti e disinformazione.
Non è una notizia da poco. Si tratta di un segnale forte, che potrebbe segnare un punto di svolta nei rapporti tra Bruxelles e le big tech americane, con ricadute che vanno ben oltre il destino della piattaforma di Musk.
Il contesto: il Digital Services Act e il controllo digitale
Per capire di cosa stiamo parlando, è necessario fare un passo indietro.
Il Digital Services Act, entrato in vigore nel 2024, è il pilastro della strategia europea per regolamentare il selvaggio west del digitale.
L’obiettivo è garantire che le piattaforme con più di 45 milioni di utenti nell’UE – come X – adottino misure rigorose contro la diffusione di contenuti illegali, dalla propaganda estremista alla disinformazione sistematica.
Le sanzioni per chi non si adegua possono arrivare fino al 6% del fatturato globale annuo, una cifra che, nel caso di X, potrebbe tradursi in una multa monstre.
L’indagine su X non è una novità.
Sanzioni UE a X di Elon Musk, scenari e tensioni con gli USA
Ora, a quanto pare, Bruxelles è pronta a passare dalle parole ai fatti. L’articolo del NYT cita fonti anonime vicine all’indagine, secondo cui la multa potrebbe essere annunciata nell’estate del 2025. Accompagnata da richieste di modifiche strutturali alla piattaforma.
Un colpo diretto non solo a X, ma anche a Elon Musk, figura controversa, che da anni si scontra con le autorità europee sulla sua visione di una libertà di espressione senza filtri. E che oggi ricopre un ruolo di rilievo all’interno dell’amministrazione Trump.
I possibili scenari, cosa succede se la sanzione diventa realtà
Se l’UE dovesse confermare la sanzione, gli scenari possibili sono molteplici.
Il primo, e più immediato, è quello economico. Una multa superiore al miliardo di dollari metterebbe sotto pressione X, già alle prese con un calo di utenti e introiti pubblicitari dopo l’acquisizione da parte di Musk nel 2022. E che di recente è stata acquisita da xAI per 33 miliardi di dollari.
Ma non si tratterebbe solo di soldi. L’Europa potrebbe imporre cambiamenti operativi – come una revisione degli algoritmi o un rafforzamento della moderazione – che Musk ha sempre osteggiato, considerandoli una forma di censura.
Poi c’è lo scenario politico. X potrebbe decidere di resistere, magari ritirandosi dal mercato europeo per evitare di piegarsi alle regole del DSA.
Una mossa estrema, ma non del tutto improbabile, visto il carattere di Musk e le sue recenti prese di posizione contro Bruxelles. In alternativa, la piattaforma potrebbe adeguarsi, ma a costo di perdere parte della sua identità “libertaria”. Da ricordare la vicenda del Brasile.
Infine, c’è lo scenariodiplomatico, quello più complesso. Una sanzione di questa portata non resterebbe un affare tra l’UE e X. Si colpirebbe un simbolo del potere tecnologico americano, guidato da un uomo che è anche uno dei più stretti alleati del presidente Donald Trump. E qui entra in gioco il contesto più ampio.
Le tensioni tra Usa e UE, dai dazi allo scontro sul digitale
Le relazioni tra Stati Uniti e Unione Europea non sono mai state così fragili.
Con l’entrata in vigore dei dazi annunciati da Trump due giorni fa – tariffe del 25% su acciaio, alluminio e auto, seguite da altre su semiconduttori e farmaceutici – il tutto si è trasformato in un campo di battaglia commerciale.
L’UE ha idea di rispondere con propri dazi, rinviati al momento al 13 aprile, ma la rappresaglia potrebbe presto prendere di mira i giganti digitali americani, come suggerito dal leader del PPE Manfred Weber: “Se Trump colpisce i nostri beni, noi puntiamo sui loro servizi”.
In questo clima di guerra fredda economica, la sanzione a X rischia di essere percepita come un attacco diretto agli interessi americani.
Musk, a capo del Department of Government Efficiency (DOGE) nella nuova amministrazione Trump, non è solo un imprenditore: è. Oggi è un attore politico di peso, con un’influenza che spazia ovunque.
L’UE, dal canto suo, sembra voler usare X come esempio per dimostrare che nessuno è al di sopra delle sue leggi. Una mossa che potrebbe innescare una reazione a catena.
Trump, che ha già minacciato di far uscire gli USA dalla NATO in risposta a mosse ostili, potrebbe vedere nella multa addirittura un affronto personale, esasperando ulteriormente le tensioni transatlantiche.
La risposta di X in cui parla di censura
X non è rimasta in silenzio. In un post pubblicato sulla piattaforma, la società ha replicato con toni decisi: “L’UE vuole punirci per aver difeso la libertà di parola. Il Digital Services Act è un’arma di censura, non una legge per la sicurezza. Non ci piegheremo”.
Un messaggio che riflette la linea dura di Musk, pronto a trasformare la vicenda in una crociata ideologica.
Nessuna apertura al dialogo, nessuna promessa di adeguamento. Solo la sfida aperta a Bruxelles, con un richiamo implicito al sostegno di Trump e dei suoi follower.
Le big tech si rivolgono a Trump per pressioni su UE
Non è un caso che, negli ultimi mesi, i grandi nomi della Silicon Valley abbiano intensificato i contatti con l’amministrazione Trump.
Mark Zuckerberg, ad esempio, in un’intervista al podcast Joe Rogan Experience del 18 gennaio 2025, ha dichiarato: “Gli Stati Uniti dovrebbero difendere le loro aziende tecnologiche. È un vantaggio strategico che non possiamo perdere”.
Una posizione che sembra un appello diretto a Trump per contrastare le mosse dell’UE, come il DSA o il Digital Markets Act, percepiti come minacce al dominio americano nel digitale.
Anche Sam Altman, CEO di OpenAI, ha reso la sua donazione alla campagna di Trump, un gesto che alcuni interpretano come un tentativo di assicurarsi un alleato contro eventuali ritorsioni europee.
Musk, dal canto suo, non ha bisogno di chiedere favori. Il suo legame con Trump è già solido, cementato da anni di sostegno politico e finanziario.
Il futuro in bilico tra Usa e UE
La vicenda di X e dell’UE è molto più di una disputa legale. È un capitolo di una storia più grande, quella di un mondo ormai diviso tra visioni opposte.
Da un lato, l’Europa che cerca di imporre regole per proteggere i cittadini e la democrazia; dall’altro, un’America che vede nel controllo digitale una minaccia alla sua egemonia.
Le sanzioni, se dovessero arrivare, non sarebbero solo un conto da pagare per Musk. Sarebbero un test per capire fino a che punto le tensioni transatlantiche possono spingersi prima di spezzare qualcosa di irreparabile.
E noi, come sempre, staremo qui ad osservare ed interpretare gli eventi, cercando di decifrare un futuro che oggi si scrive anche a colpi di post.